Al di sotto dell’albero di Radice del fiume
L’enclave celeste di Bala Ged fluttuava nel cielo sopra le ampie fronde delle terre selvagge di Guum, come una luna imponente che non abbandona mai il cielo, intenta a scrutare Obuun dall’alto, imperturbabile. Lo sfidava ad ammettere la sconfitta e a tornare nella città kor sopra di lui. Senza incrociare il suo sguardo, Obuun si sporse dalla serpeggiante paratia in legno e osservò le guardie della boscaglia che si stavano allontanando dal villaggio di Radice del fiume. Una coorte formata da una decina di figure si muoveva sul terreno della foresta, a malapena visibile grazie alle vesti a chiazze di color marrone e verde. Dopo pochi istanti svanirono in direzione nord, lasciandolo con la prospettiva di un futuro in compagnia della sua rabbia e del condottiero del clan di Radice del fiume.
"Dai loro tempo, Obuun", gli disse Nezzan.
"Perché mai dovrei dare loro qualcosa?" Obuun cercò di afferrare una falena che lo irritava svolazzando intorno alle sue lunghe orecchie. "Dovrei essere laggiù insieme a loro, a combattere i surrakar. I surrakar mi hanno portato via i genitori e ora le guardie della boscaglia mi stanno impedendo di prendermi la rivincita."
"Obuun, so che credi che vendicare la morte dei tuoi genitori guarirebbe il tuo legame con i tuoi antenati. Potresti aver ragione, ma non conosci le terre selvagge di Guum come quelle guardie della boscaglia e nessuno può permettersi di prendersi cura di te laggiù. Se dovessi morire senza una connessione con i tuoi antenati, la tua anima andrebbe persa. Se invece dovessi sopravvivere, le terre selvagge si prenderebbero qualcosa di ben diverso dalla tua vita. Va sempre a finire così."
"Pensi che io non lo sappia?", rispose bruscamente Obuun. Le terre selvagge gli avevano già strappato entrambi i genitori. Che altro avrebbero potuto portargli via? "Provare il mio valore vale il rischio", aggiunse Obuun. Nezzan scosse la testa in modo paternalistico.
"Tu non comprendi bene quei rischi. Dopo essere stato con i Kor così a lungo, hai ancora molto da imparare e le guardie della boscaglia lo sanno bene."
"Quindi ritengono che io sia un Kor perché ho vissuto con loro? È ingiusto." Obuun si voltò verso Nezzan, scrutando il volto di quel minuto Mul Daya. Dal punto di vista di un elfo, erano anziani, con le linee della fronte e gli angoli degli occhi simili alle vene di una friabile foglia caduta.
"Non posso entrare nella mente delle altre persone, come non può farlo nessun altro Mul Daya", disse Nezzan. Obuun aprì le labbra, ma Nezzan lo anticipò sollevando una mano. "Esistono alcune cose di cui non sono a conoscenza, Obuun. So che tuo zio Dykaar adora i Kor perché hanno offerto a lui... e a te... sicurezza. So che i Kor hanno una grande abilità nel sostituire il nostro modo di vivere con il loro nella mente di tutte le persone su cui mettono le grinfie. E so che i Mul Daya sono lenti nel dare fiducia."
"Questo è il motivo per cui dovrei essere con loro. Se solo mi dessero l’occasione di dimostrarglielo, si renderebbero conto di potersi fidare di me." Obuun superò Nezzan. Non volevano capire. Nessuno a Radice del fiume era in grado di comprendere il dolore del sentirsi un estraneo nella propria terra o come la pazienza degli elfi potesse usurarlo.
I suoi oggetti erano pronti, nella vecchia casa impolverata e piena di rampicanti dei suoi genitori. Nezzan voleva che Obuun si dedicasse a quella casa, raccolta sotto un imponente ramo del grande albero in cui dimoravano tutti gli elfi del villaggio di Radice del fiume. Obuun non aveva però alcuna intenzione di rimanere in una casa traboccante di ricordi e colma di natura crescente in un villaggio in cui non godeva della fiducia di nessuno. Non mentre le terre selvagge erano una miniera di occasioni per riconquistare ciò che aveva perso.
L’armatura che lo zio Dykaar aveva acquistato per Obuun era appesa a un rampicante nell’angolo dell’ingresso della vecchia casa, con le sue fattezze kor ricche di spigoli così fuori posto tra le serpeggianti e armoniose linee curve di colore verde. Venire in questo posto era, a modo suo, un tradimento. Dykaar gli aveva dato tutto ciò che possedeva, ma Obuun non era riuscito ad accettare di rimanere separato dai suoi antenati neanche per un altro istante. Aveva portato quell’armatura e la contorta lancia uncinata fino al mondo in superficie, abbandonando la sua unica famiglia vivente sull’enclave celeste.
Essere fuggito dalla frastornante magia dell’enclave celeste e aver annullato le distanze non era comunque stato sufficiente per guarire quella connessione spirituale ormai ferita e il timore che non sarebbe mai guarita si era fatto strada nel profondo di Obuun come una larva di coleottero all’interno di una radice di un albero. Scosse la testa per rimuovere quel pensiero e indossò l’armatura, con le sezioni triangolari degli schemi kor leggeri e familiari dell’appoggio sulle spalle. Obuun afferrò poi un rotolo di corda, la lancia e la sua cintura da arrampicata e scivolò furtivamente fuori dalla porta posteriore. I cardini cigolarono per protestare, ma i rumori della foresta erano sufficientemente intensi da coprire la sua fuga. Uno stormo di uccelli viola e neri cinguettò sui tetti del villaggio, gli insetti ronzarono nutrendosi delle alghe luminescenti dell’acquitrino dietro il villaggio e i ragazzini urlarono da qualche parte in basso. Nessuno si sarebbe accorto di un elfo intento a scendere con una fune da una piattaforma all’altra, evitando le scale e gli abituali passaggi che portavano a terra.
Il terreno era morbido e gli stivali d’acciaio di Obuun non produssero alcun rumore al contatto con le foglie cadute che si stavano trasformando in concime per la terra. Era sceso nell’unica area libera al di sotto del villaggio, dove le ceneri venivano ricoperte da strati di foglie umide per impedire che i fuochi crematori si diffondessero nel sottobosco. La fuliggine di generazioni di morti era come un livido nella corteccia dell’albero di Radice del fiume e, sebbene Obuun non riuscisse nella connessione con i suoi progenitori, percepì quelle ceneri nella propria anima. Per primo suo padre, seguito da sua madre, entrambi scomparsi anni prima e mai cremati in questo luogo per liberare i loro spiriti, permettendo loro di unirsi al villaggio.
Obuun scivolò attraverso la macchia, tra gli alberi che sembravano nani in confronto alle dimensioni imponenti dell’albero di Radice del fiume, e si chiese se la sua connessione fosse stata ferita così tante volte da non riuscire più a rigenerarsi. Tempo prima, si era rotto due volte il polso e il nuovo osso aveva iniziato a scricchiolare come un ramoscello solo un mese dopo che i guaritori kor avevano messo le mani su di lui. Non sarebbe mai tornato come nuovo, ancora sbilenco dopo una decina d’anni. Per Obuun era un promemoria costante della sua debolezza che gli provocava fitte di dolore al cambio delle condizioni atmosferiche, proprio come il villaggio di Radice del fiume era un perenne ricordo di ciò che aveva perso. In ogni caso, meglio essere in questo luogo, libero, che seduto comodamente nell’enclave celeste. Per lo meno, le guardie della boscaglia che lo avevano rifiutato erano state schiette nella loro freddezza. I Kor avrebbero sorriso di fronte a uno straniero, per poi pugnalarlo alle spalle nel caso non si fosse adattato al loro stile di vita.
Obuun si era conformato come gli imponenti licheni che contornavano gli alberi, annullandosi e indossando le vesti kor e dipingendosi il volto con i simboli kor. Lo aveva fatto anche quella mattina, dimenticandosi del fatto che non fosse più necessario. L'aria al di sotto delle fronde era umida e la pittura risultava morbida sulla sua calda pelle, quindi fu per lui facile rimuoverla con una passata della mano. Si pulì la mano sui pantaloni in pelle, meravigliato dalla facilità con la quale riuscisse a muoversi attraverso le terre selvagge di Guum. I Kor e zio Dykaar consideravano le terre selvagge imperturbabili e aperte solo a guardie della boscaglia come Ayya, la madre di Obuun.
Si chiese se anche lei si fosse sentita così nell'attraversare le terre selvagge, libera e solitaria. Invisibile e lontano dal giudizio degli elfi, ma osservato da ogni direzione dalla fauna di Zendikar. L'aria era colma degli aromi della decomposizione, della nuova crescita e di qualcosa di aspro. Si trovava vicino alla tana dei surrakar. Obuun si nascose dietro un albero per preparare la sua imboscata. Avrebbe riportato all’albero una prova dell’uccisione di un surrakar e le guardie della boscaglia sarebbero state costrette ad accettarlo nella spedizione successiva. Non avrebbero potuto permettersi di non avere con sé qualcuno in grado di aiutarle.
Dei passi, leggeri e circospetti. Obuun trattenne il fiato e allungò le orecchie per intercettare ciò che stava per giungere su due gambe vicino al suo nascondiglio. Sbirciò da dietro l'albero e vide un nauseante surrakar verde che si trascinava tra gli alberi. La sua altezza era quella di un medio Mul Daya, ma era più tozzo, con un doppio mento e una lunga coda che strisciava a terra. In una delle sue mani artigliate aveva una lancia elfica che sembrava aver trascorso gli ultimi vent'anni sul fondo di una palude.
Obuun strinse la propria lancia e, con occhi in cui si alternavano luce e oscurità, scattò tra gli alberi in direzione del surrakar. Il fetore nauseante della caverna lo investì come un pesante sipario e venne avvolto da un’umida oscurità. Pedinò il surrakar, rallentando istintivamente nell'attesa che la vista tornasse limpida. Gli insegnamenti di zio Dykaar non sarebbero stati utili ad Obuun nell’adattarsi al villaggio di Radice del fiume, ma lo avrebbero aiutato in quel momento.
Il surrakar doveva aver udito lo strisciare dei pesanti stivali di Obuun, in quanto si voltò e sollevò l’arma con un gesto circolare che la fece sibilare in aria. L'acciaio si scontrò con l'acciaio, lanciando scintille che illuminarono il tetro tunnel. Il surrakar era più forte di quanto pensasse e riuscì quasi a far cadere Obuun con un colpo di una lancia tenuta con una mano sola. A Obuun tremarono le mani e si rese conto che avrebbe dovuto uccidere il surrakar o fuggire prima che fosse lui a ucciderlo. Prima che potesse decidere, la bestia si mise a gracchiare in modo fastidioso, cercando di colpire Obuun al volto e costringendolo ad accovacciarsi. La paura inondò le sue viscere e arretrò per preparare di nuovo il suo attacco.
Il peso del surrakar lo fece cadere al suolo dopo pochi passi, rischiando di fargli sbattere la testa contro una parete. Cercò freneticamente il pugnale nella sua cintura e lo usò per infliggere colpi selvaggi sopra le proprie spalle, ma il pugnale finì per sfuggirgli dalle mani e cadde sonoramente nell’oscurità. Un freddo metallo sfiorò la nuca di Obuun, che si paralizzò, troppo spaventato per muoversi. Il nudo piede squamato del surrakar lo colpì alle costole e lo fece ribaltare. La punta della sua lancia disegnò una calda linea di dolore sulla sua gola.
Obuun esplorò ciò che si trovava sopra la propria testa, puntando le mani contro una parete. La superficie viscida della sua armatura scivolò facilmente lungo il pavimento, permettendogli di passare tra le gambe del surrakar. Gli afferrò la coda e strinse con la mano punte e dentellatura, tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. La coda muscolosa del surrakar scagliò Obuun contro la parete, lasciandolo quasi senza sensi ancor prima che cadesse al suolo. Il surrakar sollevò la lancia per dargli il colpo di grazia, ma la lunga asta sbatté contro la parete di quello stretto passaggio e diede a Obuun alcuni istanti in più per riprendersi. Si alzò e scattò di nuovo, andando a sbattere in modo confuso contro le pareti scarsamente illuminate dai licheni luminescenti.
Dopo pochi istanti, Obuun si perse. I rumori delle squame contro la pietra, dei ringhi e della carneficina sembravano provenire da ogni direzione. Ovunque andasse, sarebbe finito nelle mani di una morte oltre la morte, lontano sia dagli antenati che dai vivi, un pensiero che gli fece rivoltare lo stomaco dalla nausea. A un certo punto, Obuun vide un’insenatura oscura nella pietra contenente terra compatta e si nascose. Le radici gli sfioravano la nuca e una voce familiare riecheggiava dalla pietra, leggera come increspature di acqua fresca che scendeva lungo la schiena. Lasciala entrare.
Quei brividi lo risvegliarono, il suo respiro tornò regolare e il battito del cuore si stabilizzò. Obuun era capovolto, ma l'aria stantia gli sembrò quasi familiare. Si trovava forse al di sotto dell’albero di Radice del fiume?
Sicuro del fatto che rimanere immobile lo avrebbe destinato alla morte, decise di strisciare fuori dal suo nascondiglio. Nonostante le speranze fossero minime, pregò gli antenati di permettere ai suoi occhi di individuare una via di fuga dalla caverna del surrakar. Aveva vissuto nell’enclave celeste troppo a lungo e la sua magia aveva eroso la connessione con il suo passato, rendendo i suoi sensi più deboli per quella situazione. Non vi era traccia di aria fresca e le radici che disegnavano linee sulle pareti erano così spesse e diffuse da non permettergli di capire in quale direzione andare. Lasciala entrare. Forse quella voce elfica musicale avrebbe potuto guidarlo verso casa, se solo fosse riuscito a trovare la via.
Il terreno era inclinato e Obuun cadde più volte a causa degli uncini dei suoi stivali che si impigliavano su sassi e terreno compatto. In un’occasione, cadde così pesantemente in avanti che gli edri della sua armatura sbatterono contro la roccia frastagliata. Nell’oscurità udì un surrakar ringhiare, ma non riuscì a muoversi a causa della caduta, che gli aveva tolto tutta l'aria dai polmoni. Si agitò come un pesce sulla riva, cercando di trovare un appiglio sulla viscida pietra per rimettersi in piedi e correre più velocemente possibile. Rumore di passi scalzi e un gracchiare orribilmente familiare lo seguirono, riecheggiando in ogni tunnel e invadendo la sua mente fino a far pompare il cuore a un ritmo che gli annebbiò la vista. Inciampò di nuovo e di ritrovò per terra lungo un pendio. Sbatté arti e busto contro le pietre, al punto da immaginare le proprie costole come un fascio di rametti vecchi e asciutti.
Obuun cercò di riprendere fiato su quel terreno soffice e umido. O forse era lui a essere soffice e umido, un mucchietto di tenera carne cruda. Era troppo ammaccato e senza fiato da chiedersi se il surrakar che gli avrebbe tagliato la gola potesse udire il suo respiro pesante e al tempo stesso era troppo stanco per cercare di fuggire. Attese il colpo di grazia, ma si ritrovò a respirare di nuovo normalmente, solo e in un benedetto silenzio. Si riposò per qualche istante, perdendo e riprendendo coscienza, per poi udire di nuovo quella voce attraverso quella foschia di sfinimento. Lasciala entrare. Sembrava la voce di sua madre, il tono delicato come una favola della buona notte, ma le parole erano troppo basse per essere udite.
La risata che venne spontanea a Obuun gli fece dolere le costole. L’idea che aveva sua madre delle favole per farlo addormentare avrebbe spaventato la maggior parte delle madri. Conteneva di solito basilischi o wurm, che avevano spesso generato incubi nelle notti di Obuun bambino, con il risultato di spingerlo a dormire nel letto dei genitori. Quella sensazione di comodità sembrava ancora più lontana di un tempo. La solitudine dell’enclave celeste e di Radice del fiume non era confrontabili con la sensazione che stava provando in questo momento. Era dolorosamente conscio della comodità che avrebbe potuto avere se la connessione fosse rimasta intatta. Avrebbe avuto un qualcosa a cui appoggiarsi, qualcosa che gli avrebbe dato la forza per reagire a qualsiasi colpo.
Per rimettersi in piedi avrebbe dovuto affidarsi alla sua pura ostinazione. Obuun si ritrovò in un luogo torbido, a mala pena illuminato dal tenue bagliore verdastro dei licheni che crescevano sulla parete superiore. Fu sufficiente per capire che quella camera era enorme e contornata da radici che scendevano dal soffitto. Ebbe una tentazione infantile di cercare di toccare quelle radici e di far scorrere le dita tra di esse come se fossero capelli. Rimosse subito dalla mente quel desiderio. Aveva questioni molto più importanti di cui occuparsi.
Nonostante gli avesse salvato la vita, la sua armatura era troppo rumorosa e il rumore del movimento del surrakar riecheggiava dal pendio. Rimosse l’armatura kor, facendo attenzione a riporla con delicatezza a terra, per poi continuare a esplorare il profondo di quella caverna. Le sue caviglie sfiorarono qualcosa di delicato e ogni passo generava una serie di suoni secchi; guardò in basso e rimase paralizzato. Ossa. Quel luogo era pieno di ossa. Un brivido gelido come l'aria secca sopra Bala Ged lo investì, causando una reazione di un qualcosa nel profondo del suo petto. In quel luogo, con così tanta terra e cielo tra lui e il frastornante potere dell’enclave celeste, poté finalmente percepire la presenza degli spiriti del clan di Radice del fiume.
La leggera sensazione di sollievo si scontrò con quella di terrore, che la inglobò rapidamente. Decide di morti nel corso degli anni, vesti putrescenti e cuoio sbriciolato sotto gli stivali di Obuun, il richiamo delle vibrazioni come di silenziose campane. Una voce tremolante si fece strada in quel coro. La testa iniziò a girare e Obuun non riuscì a comprendere se fosse a causa delle tante cadute o di una qualche magia ancestrale. Prima di riuscire a reagire, qualcosa lo colpì su un fianco causando un ardente dolore e facendolo cadere in ginocchio con un orrendo schiocco come di un osso che si rompe. Appoggiò la mano su un frammento tagliente e quel fioco ambiente da incubo della caverna del surrakar svanì.
Persa tra i ricordi, la vista di Obuun venne oscurata da un’immagine offuscata della madre. Una pelle dal leggero color marrone squarciata da cicatrici più scure sul dorso delle sue abili mani. Lunghe orecchie tempestate d’argento e contornate da una chioma ondulata di un colore scarlatto e con radici di colore nero naturale. Sorrisi e risate sempre evidenziate dal silenzio dell’attesa di una guardia della boscaglia, di una paziente cacciatrice che sarebbe potuta svanire nelle terre selvagge di Guum senza lasciare traccia, ma che ogni volta ritornava a casa.
Un feroce calcio sbatté Obuun a terra, annebbiandogli la vista e frantumando quella visione della madre. Cercò quell’immagine, ma la sua mano trovò invece i familiari cuoio e acciaio. Obuun sollevò il piccolo pugnale della madre appena in tempo per impedire al surrakar di tagliargli la testa. I muscoli del suo braccio urlarono per l’uso di tutta la forza rimasta per spingere via la creatura con quella lama dalla forma di foglia. Poteva sentire nelle mani la presenza evidente della madre come se gli stesse tenendo le dita tra le proprie.
Invece di lanciarsi di nuovo direttamente su di lui, il surrakar gli girò intorno nell’oscurità, movimento rivelato dal rumore delle ossa sotto i suoi piedi. Ogni schiocco e sgretolio era una fitta di dolore nello stomaco di Obuun. Si rialzò a fatica, reggendosi con una mano alla lama della madre e con l'altra a proteggere la ferita al fianco. La fuoriuscita di sangue non era grave quanto temeva, ma il dolore pulsava a un ritmo che corrispondeva al battito del suo cuore e al rintocco delle voci degli spiriti che gli vorticavano intorno. L’aria gelata e umida si trasformava in rovente vicino alla pelle di Obuun. Ogni volta che si avvicinava al surrakar, quella creatura indietreggiava sollevando la lancia.
Obuun non poteva perdere tempo con i giochetti di quella bestia. La aggredì con un balzo, riuscendo a scagliare lontano la sua lancia con il piatto della propria lama, ma la gittata delle braccia del surrakar era maggiore della sua nonostante fosse rimasto senza un’arma. Obuun doveva fuggire, evitando gli artigli maligni della creatura. La bestia afferrò il braccio di Obuun e torse la lama facendogli perdere la presa grazie a un colpo sul fianco ferito. Il mondo sembrava ribaltarsi e Obuun cadde, trascinando il surrakar a terra. Sotto di loro si udì il rumore di ossa che si frantumavano, come il lamento di una voce di pietra e terra.
Il surrakar si bloccò e diede a Obuun l’occasione per colpirlo, ma la sua lama penetrò nelle robuste scaglie invece che nelle carni. La bestia spinse via Obuun, strappando l’elsa dalla sua presa. La pietra sotto di loro sussultò, ma lui riuscì a mantenere l’equilibrio e a rialzarsi, sorretto da una forza invisibile. Al di sotto di loro, il terreno continuava a muoversi e a gemere come se fosse vivo.
Dopo un istante di confusione, Obuun comprese che una lastra di pietra si stava sollevando proprio sotto i suoi piedi, come a rispondere alle sue necessità. Il potere fluì attraverso il suo corpo, una fonte che lo riempiva dal profondo di Zendikar, con un formicolio ardente come migliaia di punture di spillo, infine sostituito da un leggero ronzio. Se solo fosse riuscito a convincere la terra a liberare quelle ossa dei Mul Daya, lui avrebbe potuto riportarle al villaggio e ottenere non solo l’ammirazione del clan ma anche i resti dei suoi genitori. La connessione ferita ai suoi antenati sarebbe stata guarita.
Obuun strinse i denti, impaziente di rivelare l'esistenza di quel luogo terribile e permettere al sole di splendere sulle ossa del suo clan. La piattaforma continuò a sollevarsi, frantumando la pietra e sbriciolando il terreno sopra la sua testa. Il surrakar gridò per il terrore e si appiattì contro il pavimento di pietra e ossa, incapace di comprendere che cosa stesse avvenendo. Nonostante tutto, il senso di colpa era ancora forte dentro Obuun. Era solo un animale, un predone che aveva avuto la sfortuna di vivere vicino a un essere di carne che aveva reagito al suo assalto, che bramava vendetta.
Un orrendo schiocco interruppe i pensieri di Obuun riguardo al surrakar e gli fece alzare lo sguardo verso una delle radici dell’albero di Radice del fiume che veniva schiacciato contro il soffitto dalla pietra che si stava sollevando. Avevano carni pallide e tagliate, visibili sotto la spessa pelle scura. Il sapore della vittoria imminente divenne amaro sulle labbra di Obuun; riportare alla luce le ossa avrebbe causato lo sradicamento dell’albero e senza l’albero non ci sarebbe stato alcun clan di Radice del fiume. Gli elfi sarebbero morti per questa catastrofe, le dimore sarebbero state distrutte e le vite sarebbero state rovinate. Ma lui era disarmato e solo, con un surrakar intenzionato a trasformarlo nel suo pasto.
Obuun analizzò la stanza intorno a sé alla ricerca di una via di fuga e il suo cuore iniziò a battere più rapidamente. Ciò che poteva fare era allontanarsi il più possibile dal surrakar e calarsi lungo la scogliera crescente. Con la corda tra le mani, strizzò gli occhi per separarsi dalla linfa vitale di Zendikar. Il movimento della terra si arrestò così violentemente da far quasi cadere Obuun. Il surrakar strisciò verso di lui a quattro zampe e dalla sua gola eruppe un grido terrificante. La sua mano affondò la spada nel fianco del surrakar nello stesso momento in cui le fauci della creatura si strinsero sulla sua spalla.
Il dolore trafisse le sue carni facendo divampare il calore in una decina di punti. Il surrakar si concentrò sulla spalla e non mollò la presa finché Obuun non raccolse ogni brandello di forza per infilare la spada ancora più nel profondo. Il surrakar ululò e rotolò lontano, mentre per Obuun la visione del mondo passava dall’oscuro a una serie di strisce di verde brillante, tutto circondato da spasmi di dolore. La nausea crebbe così intensa da far crollare Obuun a terra, sulla fredda e dura pietra che gli diede un parziale sollievo in contrasto alla rovente bile nella sua gola. Venne ricoperto da frammenti di ossa e, sfinito e intossicato, venne divorato da un’oscurità venata da squarci color smeraldo.
Le linee di verde presero lentamente la forma di rampicanti, foglie e rami. L’aria era umida, ma anche fresca e intrisa del profumo del fogliame e dei fiori. Da qualche parte si udiva l’ululato di uno gnarlid a coprire temporaneamente il cinguettio degli uccelli sopra di lui.
"Dai loro tempo, Obuun", disse una voce. Obuun si voltò, con una rabbia crescente, per dire a Nezzan di tener per sé i suoi consigli.
Al suo posto vide invece sua madre, reale quanto gli alberi intorno a loro. Si tolse la maschera colorata e la strinse sotto il mento, scoprendo il volto e mostrando un sorriso. La sua chioma rossa era nascosta da un copricapo e le sue spalle erano rese ancora più larghe dall’armatura di corda, quell'armatura che, nei ricordi di Obuun, sua madre aveva riparato alla luce della candela quando era ancora viva. Prima che lui venisse portato via da tutto ciò che conosceva e obbligato a vivere tra i Kor, lontano da lei e dai suoi antenati.
"Ho atteso così a lungo", le sussurrò.
"Sì, lo so."
"Non si fidano di me", disse Obuun con voce spezzata e carica di rabbia, rimuovendo quell'armatura sotto cui nascondeva paura e dolore. Si era augurato di riuscire a controllarlo, ma era una ferita pungente che aveva trasformato il suo volto in una smorfia. "Devo dimostrare il mio valore, Madre. Devono riuscire a vedere che io sono uno di loro, ma ho fallito. Ho quasi sradicato l’albero. Non sono stato in grado di uccidere un semplice surrakar."
"Hai bisogno di dimostrare qualcosa a loro o a te stesso?", gli chiese la madre. Obuun non rispose. Non conosceva la risposta a quella domanda. "La temerarietà non è il modo in cui i Mul Daya dimostrano il proprio valore. La pazienza lo è. Ogni Mul Daya ha uno scopo e il tuo non è questo. Permetti a Radice del fiume di fare breccia nel tuo cuore e lei ti permetterà di entrare nel suo."
Obuun alzò lo sguardo verso gli imponenti rami che si aprivano sopra la sua testa. Radice del fiume era diventato un luogo di dolore, un simbolo di tutto il peggio che la vita gli aveva riservato. La perdita dei suoi genitori, la perdita dello stile di vita dei Mul Daya. La lenta decomposizione della dimora di quando era un bambino. La consapevolezza piombò su Obuun con la lentezza di una radice che si fa strada nel terreno. Odiava quel luogo. La sua rabbia e la sua delusione non avevano fatto altro che crescere da quando era tornato.
"Non so come smettere di provare queste sensazioni", rispose.
Sua madre non rispose. Obuun guardò verso il basso dalle fronde e non la vide più. Aveva lasciato un vuoto dietro di sé, un vuoto in Zendikar e nel clan di Radice del fiume che non sarebbe mai stato colmato. La foresta incombeva su di lui, con rami e rampicanti che si intrecciavano, implorandolo di lasciarsi andare. Obuun non sapeva come permettere a Radice del fiume di entrare nel suo cuore, con il solo pensiero che farlo avrebbe reso ancor più profonda la ferita dentro di lui. Avrebbe voluto fidarsi dello spirito di sua madre, seguire la via che gli stava indicando, proprio come faceva da bambino, ma le foglie oscuravano il sole e lo scagliavano nell’oscurità e nel terrore.
Qualcosa strisciò sulla pelle di Obuun, che si mise immediatamente seduto, lasciando cadere frammenti d’ossa in ogni direzione. Piccole scintille verdi ricoprivano la sua pelle e disegnavano rampicanti che si soffermavano nella sua retina, illuminando la caverna intorno a lui. I granelli lenirono il dolore delle sue innumerevoli ferite, lavandolo come acqua limpida. Come la linfa di un albero o il nettare di un fiore, in una sensazione di dolcezza che non aveva mai vissuto.
Obuun chiuse gli occhi e si lasciò pervadere. Poteva vedere l’albero di Radice del fiume dietro le sue palpebre, sentirne il profumo di aria fresca e percepire il calore del sole e il tramontare della luna sotto l’orizzonte. L’intreccio delle leyline e gli edri che le incanalavano sfiorarono la sua pelle e lui riuscì a percepirlo in modo evidente. I tentacoli dell'albero di Radice del fiume piantarono radici dentro di lui e lui venne attirato, come filamenti di metallo vengono attirati da una calamita.
Il sollievo per aver stabilito questa connessione uscì da Obuun istantaneamente, sostituito da un doloroso vuoto. Suo padre non c'era e lui aveva perso l’osso che aveva aperto la sua mente ai suoi antenati. Il sussurro scintillante degli spiriti elfici si era interrotto, reso silente da un nuovo lutto. Obuun aprì gli occhi. Il luogo intorno a lui era illuminato da un verde delicato di una nuova foglia. Il pilastro si era rovesciato e aveva sfondato una delle pareti della caverna. Obuun ne risalì la superficie irregolare e scoprì un lago sotterraneo oltre la parete, con un'acqua immobile che veniva illuminata dalle alghe. Il suo disprezzo per quel luogo umido svanì grazie a quella bellezza di cui non si era accorto prima. Connessioni che non aveva percepito, in grado di legare i luoghi più pericolosi alla dimora che un tempo aveva amato.
So che i Kor hanno una grande abilità nel sostituire il nostro modo di vivere con il loro nella mente di tutte le persone su cui mettono le grinfie. L’essenza di Obuun era stata modificata in modi che doveva ancora comprendere e non era sicuro che giungesse mai a una piena comprensione. Come Nezzan, era però sicuro di alcuni concetti. Sapeva che la terra aveva ritenuto giusto donargli la vita. Sapeva che non avrebbe dovuto sprecare quel dono. Sapeva che l’albero di Radice del fiume lo avrebbe guidato fintanto che lui glielo avesse permesso.
Le radici dell’albero penetravano profondamente nel terreno, fino a quel lago sotterraneo, per nutrirsi di quell’acqua e crescere fino alla sua imponente altezza, ma si estendevano fino a oltre l’acquitrino scintillante che si trovava a est dell’albero di Radice del fiume. Quel lago doveva essere in qualche modo connesso, con le alghe che penetravano dall'alto e si spegnevano lentamente in assenza del sole. Doveva solo cercare l’uscita, ma prima avrebbe dovuto togliersi gli stivali. Facevano troppo rumore e continuavano a farlo inciampare.
Obuun continuò a piedi nudi sulla ruvida e fredda roccia. Ascoltò la melodia dell’acqua che trascinava lontano ogni segno del surrakar. Si fermò molte volte per controllare che non ci fossero pericoli, immaginando che il surrakar fosse ancora sulle sue tracce. Di fronte a sé, la cascata brillava ardentemente e la schiuma la riempiva di alghe luminescenti provenienti dall’alto. La roccia liscia delicatamente illuminata sarebbe stata ardua da scalare senza i suoi uncini, ma Obuun aveva ancora con sé la sua attrezzatura. Avrebbe potuto farcela, con attenzione e pazienza, a patto che non utilizzasse martelletto e chiodi da roccia. Il rumore avrebbe sicuramente reso nota la sua presenza al surrakar.
Nonostante la roccia fosse scivolosa, vi erano molte fessure in cui infilare i suoi cunei e Obuun iniziò a risalire lentamente la cascata. L’aroma dell'acqua acida e del muschio seguiva il flusso e dava a Obuun una flebile speranza, sebbene i rumori provenienti dal basso gli incutessero ancora una notevole paura. Il surrakar non era lontano. Le spalle erano dolenti, soprattutto quella che era stata invasa dal veleno, e lo sfinimento per la corsa e per il combattimento lo rallentava. Scivolò più di una volta, sempre salvato dai cunei ma ogni volta con il cuore in gola. Nel momento in cui raggiunse la cima, si ritrovò al di sopra dell’altezza alla quale una caduta sarebbe risultata letale.
L’apertura attraverso la quale l'acqua penetrava nel terreno era ampia e poco profonda, con uno spazio molto ridotto tra l'acqua e la pietra. Affondò nel flusso stabile, reggendosi a una radice che penzolava dal soffitto per evitare di essere trascinato dall'acqua all’interno della caverna. Udì un tonfo nell’acqua dietro di lui e premette il volto contro la parete di pietra nel momento in cui il surrakar che lo inseguiva si sollevò dalla cascata scintillante. Controllò l’ingresso della caverna, con il pugnale ancora conficcato nel fianco. Il cuore di Obuun risalì fino in gola, facendolo quasi balzare fuori dal suo nascondiglio dal desiderio di afferrare quell’arma, quando gli tornarono alla mente le parole della madre. Pazienza.
Obuun attese che il surrakar terminasse la sua ricerca e si voltasse per tornare infine verso il basso della cascata. Trattenne il fiato e si avvicinò al surrakar, da dietro e in silenzio, con i palmi delle mani che bramavano di stringersi sull'elsa della spada di famiglia. Afferrò l’impugnatura della spada pregando che gli antenati dessero forza alla sua mano. Tutto ciò che doveva fare era stringerla. Tutto ciò che doveva fare era afferrarla, per conservare una reliquia della madre.
Obuun si mosse più lentamente del previsto nell’acqua, ma anche il surrakar era molto rallentato. Il surrakar non riuscì a scendere abbastanza rapidamente e il cuoio realizzato decenni prima diede a Obuun un’ottima presa. Colpì la creatura con tutte le sue forze. Le scaglie crearono dei tagli sulla pianta del piede e la spalla protestò, ma il surrakar perse l’equilibrio, vacillò e infine cadde. L’aria uscì dai polmoni di Obuun in un intenso respiro e lui poté portarsi l’arma al petto, sussultando.
Una volta recuperato fiato, Obuun sbirciò dal bordo della cascata e vide una sagoma oscura nelle acque sottostanti, delineata in modo evidente dal bagliore dalle alghe. Osservò e attese, per assicurarsi che il surrakar non potesse seguirlo sulla via di ritorno al villaggio di Radice del fiume. L’ombra rimase immobile. Il battito del cuore accelerato ritornò alla normalità e la stretta dei denti si rilassò. Obuun non si era reso conto di quanto dolessero i suoi denti, fino a quel momento. Si scosse e si volto in direzione dell’apertura verso la palude.
Obuun dovette attraversare le radici e i rampicanti penzolanti prima di emergere all'aria aperta, in piena notte. La luna splendeva alta e illuminava il mondo di una pallida luce argentea che completava il bagliore delle alghe sottostanti. Obuun percepiva la presenza dell’albero di Radice del fiume e la sua dimora, che lo osservavano e lo attendevano. Sfinito, desideroso di nient’altro che tornare alla vecchia casa fatiscente dei genitori, si mise in marcia su quel lungo cammino.
Alcuni giorni più tardi, dopo un lungo riposo e molte estenuanti giornate di lavoro, un filo di fumo iniziò a sollevarsi dal terreno della foresta e ad avvolgere i rami e i passaggi del villaggio di Radice del fiume. Il suo profumo si mescolava con l’odore aspro dei colori scarlatti. Le punte delle orecchie di Obuun erano ancora rosa per la tintura dei capelli nello stile dei suoi genitori e le sue mani erano di un colore rosso nei punti in cui non erano ricoperte di vesciche dovute al lavoro con la roccia. La sua scoperta della caverna delle ossa e dell’ingresso posteriore dei cunicoli del surrakar aveva generato grande attività in tutto il villaggio, che si era messo al lavoro per chiudere il passaggio tra il sistema principale dei cunicoli e la caverna delle ossa. Le ossa vennero trasportate al villaggio e la caverna fu sigillata.
Le pire furono il passo finale del villaggio di Radice del fiume, che poté finalmente liberare gli spiriti dei morti e decorare le loro ossa, le quali sarebbero state conservate in scrigni o messe in mostra su mensole. Molti elfi non riuscirono a recuperare tutte le ossa che desideravano, ma qualsiasi osso era non di meno un reperto più evidente dei dolorosi minuscoli frammenti delle ossa della madre di Obuun. La caduta le aveva ridotte a dimensioni così piccole da non lasciare altro che minuscoli resti. Molte delle ossa erano consumate o poco più di semplice polvere e sussurri dell’idea che si trovassero in quel luogo molto prima dell’arrivo del surrakar iniziarono a circolare nel villaggio.
Al passaggio dei filamenti degli spiriti, Obuun accarezzò la nuova impugnatura della spada che aveva trovato nelle profondità al di sotto dell'albero di Radice del fiume. Il volto della madre apparve in quel fumo, per poi svanire e riapparire, sorridente, più e più volte.