Il racconto precedente: L’ultima speranza di Innistrad

Un rancore millenario sta per portare a uno scontro.

Per Sorin, la causa è la deformazione della sua dimora ancestrale. La dissoluzione di Avacyn. L’arrivo di Emrakul.

Per Nahiri, la causa è il tradimento di un amico. I millenni trascorsi intrappolata nella Tomba Infernale. La rovina di Zendikar durante la sua assenza.

Quando due antichi Planeswalker si scontrano, interi piani ne pagano le conseguenze.


Pedina Indizio | Illustrazione di Cliff Childs

La chiamavano l’Araldo. Non era un nome inappropriato, quei cultisti fanatici avevano ragione e l’avevano seguita fino qui, diventando sempre più numerosi da quando ha iniziato a operare su Innistrad. Le erano devoti e ricordavano a Nahiri che l’unica cosa che valesse la pena salvare in questo dannato mondo era la sua vendetta.

La cantilena farfugliante delle centinaia di cultisti riecheggiava nelle sale, mentre lei guardava il vampiro dritto negli occhi. Lui era orripilante, con le sue labbra sollevate che rivelavano i denti orrendi, affilati e implacabili. Due occhi, come gioielli di ambra immersi in pozze d’inchiostro, la osservavano o, meglio, guardavano nella sua direzione. Dal punto di vista di Nahiri, quel succhiasangue era abbigliato in modo lussuoso e, come le decine di suoi simili intorno a lui, era intrappolato nella parete. Erano tutti morti. Li aveva uccisi lei.

Odiava questo posto, il Maniero Markov. Come la maggior parte di questo piano, aveva il fetore di Sorin. Nonostante fosse frantumato, contorto e riplasmato da lei, non era ancora abbastanza per epurare la sua presenza. Ma ora lei era in quel luogo. I preparativi erano stati completati e doveva verificare il proprio lavoro.

Si trattava di questioni intricate, ma Nahiri aveva avuto migliaia di anni per preparare il suo piano.

Migliaia. Di. Anni.

Era stato un tempo sufficiente per pianificare la sua vendetta da ogni punto di vista e a ogni livello di profondità, verificarne il funzionamento, mettere a punto i dettagli e riprovarlo finché ogni aspetto non fosse al proprio posto... finché il piano non fosse diventato perfetto.

Ora, passeggiando tra le ossa nodose del Maniero Markov, Nahiri si concesse un leggero sorriso. Tutto era al proprio posto, dove lei lo aveva messo... tutto tranne Sorin. E presto anche lui sarebbe andato incontro al suo destino.

Questa volta aveva portato con sé qualcosa di speciale, un’armata che lei aveva radunato dopo aver scoperto che Sorin si stava avvicinando con il suo esercito per affrontarla. Certo, aveva i cultisti dalla sua parte, ma non poteva permettersi di essere approssimativa per ottenere la sua vendetta.

La prima parte delle armate di Sorin era composta dai vessilli, antichi tessuti che pendevano da pali in legno scuro, trasportati da cavalieri vampiri ricoperti da rifinite armature di piastre. Erano seguiti da centinaia di vampiri, spiegati su tutta la collina di fronte al maniero.

Nahiri osservò la processione dall’imponente arco dell’entrata del maniero. Quando Sorin infine emerse dal suo esercito, Nahiri serrò i denti. Sorin stava dicendo qualcosa al vampiro più vicino a lui, ma lei non riuscì a capire le parole.

Illustrazione di Igor Kieryluk

Non importava ciò che stesse dicendo. Tutto sarebbe finito presto. Con la spada in mano, Nahiri si fece avanti nella spenta luce del giorno, nella devastata strada rialzata, e diede il benvenuto a Sorin.


Uno stridio metallico si aprì un varco nel fragore della battaglia, quando Nahiri passò la lama della sua spada sul pettorale decorato di uno dei vampiri morti. Il cadavere era uno dei tanti che giacevano intorno a lei in un semicerchio. Balzò sopra i corpi senza vita e si preparò ad affrontare i nuovi attaccanti.

Tantissimi attaccanti.

Ma lei ne aspettava uno solo.

Un’ascia saettò in aria, con un vapore color cremisi dietro la lama nera. Nahiri si accovacciò per schivare il colpo e affondò la sua spada nella gola di un altro attaccante alla sua destra. Portò la mano libera verso il basso e il pavimento davanti a lei si abbassò improvvisamente; quando l’ascia tentò un secondo attacco, andò a colpire la parete della depressione. L’impatto creò molti frammenti di roccia e Nahiri li guidò con la sua magia, conficcandoli nel volto scoperto della creatura che brandiva l’ascia.

Gli altri nemici l’accerchiarono. Uno di essi, una donna con una bianca armatura di piastre smaltata, si portò di fronte a lei. Teneva la spada abbassata e Nahiri notò che l’arma aveva un paio di lame avvolte a elica che si congiungevano per formare una punta disgustosa. La vampira parlò, senza mai spostare lo sguardo da Nahiri: "Non potrai fuggire".

Nahiri reclinò il capo e sollevò un sopracciglio. "Fuggire?".

"Quando tutto questo sarà finito", continuò la donna vampiro, "berrò il tuo sangue da...", ma il vampiro si zittì quando una mensola di marmo si conficcò tra le sue fauci e polverizzò i suoi denti grotteschi. Nahiri l’aveva strappata dai detriti che si trovavano appesi sopra di loro. Aveva udito abbastanza. Mentre il vampiro in bianco si accasciava al suolo, Nahiri fece carambolare la pesante pietra squadrata addosso al gruppo di succhiasangue finché i loro crani e i loro petti non collassarono sotto i colpi. Quando i corpi non si mossero più, il blocco insanguinato di muratura ruotò in aria e fece schizzare gocce di sangue in tutte le direzioni.

Nahiri si pulì una macchia di sangue dalla guancia. Se il piano di Sorin era di fiaccarla prima di affrontarla, era uno sciocco. Migliaia di anni nella Tomba Infernale le avevano offerto un riposo sufficiente per molte vite. Se avesse dovuto porre fine alla vita di ogni altro succhiasangue per giungere a lui, allora quello sarebbe stato un ottimo inizio.

Lui si trovava lì, da qualche parte, ne era sicura. Intorno a lei, la ressa si stava scatenando in quella che lei ricordava essere la sala principale del maniero, ora piena zeppa di vampiri e cultisti, tutti intenti a massacrarsi a vicenda. Il suo sguardo passò sulla bolgia, nella speranza di scorgere quella fluente chioma bianca oppure...

Quei crudeli occhi gialli. Per un istante, li riuscì a vedere, diretti verso di lei, prima di essere di nuovo sommersi nel tumulto.

La gola di Nahiri si fece improvvisamente secca. Il suo cuore batté forte nel suo petto e tutta la rabbia dell’ultimo millennio crebbe in lei finché non urlò il suo nome: "Sorin!".

Nahiri affondò la sua volontà nel pavimento in roccia e, creando un contatto con ogni pietra del lastricato, le strattonò bruscamente. Alzò le mani di colpo e, a entrambi i suoi lati, due mura parallele si sollevarono di diversi metri rispetto al pavimento. Pietra contro pietra, le pareti si sviluppavano in tutta la lunghezza della sala per creare una specie di passaggio, isolandoli dalla mischia. Nahiri si trovò a un’estremità e Sorin all’altra.

Tra loro si stendeva un sottile spicchio della battaglia... un gruppo di vampiri e almeno il doppio di cultisti, ancora avvinghiati nei loro combattimenti. Uno dei vampiri si avventò contro Nahiri, ma la sua vendetta era troppo vicina per farsi distrarre. Con un piccolo movimento delle dita fece improvvisamente emergere un’asta di pietra dal terreno. L’asta perforò il succhiasangue in armatura sotto il pettorale, attraverso l’addome, sollevandosi fino a trapassare il rosso acciaio rifinito fino alla spalla, con un acuto gemito. Il vampiro crollò a terra e Nahiri gli passò sopra mentre il suo cadavere scendeva lentamente lungo quell’aculeo di pietra.

"Sorin", lo chiamò di nuovo, con una voce solida e forte come la pietra che era in grado di manipolare. Poi si incamminò verso di lui, diretta e fiera, mentre altre aste spuntavano dal terreno per impalare sia vampiri che cultisti.

Poco dopo, non rimase nessuno oltre a loro due.

L’ultima volta che Nahiri aveva visto Sorin, lui era stato l’ultima immagine che aveva avuto davanti agli occhi, prima che la solitudine della Tomba Infernale la consumasse. Ora, mentre lo guardava, a pochi passi di distanza, era proprio come se lo ricordava, ma senza la gracilità del loro incontro precedente. Indossava la stessa armatura, ma ora era maculata di sangue, il che aggiungeva un tocco crudele alla pietra rossa che decorava il suo pettorale. Anche la sua spada portava i segni della carneficina. Il suo volto, così abituato a mostrare quel sorriso sarcastico che lei conosceva molto bene, era sgualcito da linee austere che lei non aveva mai visto. Era deliziata da quella visione così arcigna.

"Hai portato con te molti amici", disse Nahiri, superando due spuntoni repellenti. "Ma non tutti sono sopravvissuti". Sapeva che il riferimento ad Avacyn lo avrebbe colpito, ma non trovò alcuna risposta sarcastica. Sorin sollevò semplicemente una mano pallida, da cui uscirono getti di nera energia nebbiosa. In quelle scie di ombra c’era la morte che viaggiava verso Nahiri. Sembrava che non desiderasse altro se non la scena o la poeticità di un vero duello. La morte di lei sarebbe stata sufficiente e Nahiri osservò Sorin, immobile, mentre le dita sinistre si avvicinavano a lei.

Ma quelle dita non la toccarono mai. Si separarono all'improvviso, volgendo in varie direzioni, lungo i contorni di qualcosa di invisibile. Sorin scatenò un secondo flusso di magia di morte, proprio nel momento in cui i primi dardi vaganti completarono il loro percorso tortuoso e tornarono all’origine, spegnendosi sul vampiro in una rapida sequenza di intensi sibili. Sorin cadde in ginocchio, mordendosi un labbro per il tormento, e tra le piastre della sua armatura uscirono oscuri vapori da invisibili ferite.

"Devi proprio avere un’idea riduttiva di me per pensare che questo tuo piano potesse funzionare", disse Nahiri mentre il secondo attacco magico colpì colui che l’aveva lanciato, proprio come il primo. "La magia fluisce attraverso le leyline. Le leyline fluiscono attraverso la pietra. Sappiamo entrambi ciò di cui io sono in grado. Quindi, per favore, Sorin, provaci di nuovo". Gli stava girando intorno. "Ho portato Emrakul nella tua dimora e tu pensi ancora che io sia una ragazzina".

Per un attimo, rimasero entrambi in silenzio. Più di seimila anni di storia li avevano portati a questo giorno. Guardando dritta negli occhi di Sorin, Nahiri si chiese se lui avesse lo stesso pensiero. Erano stati amici, quando lei ci credeva. E ora... ora lei avrebbe avuto la sua vendetta. Alla fine, Nahiri parlò: "Mille anni, Sorin. Mi hai tenuta imprigionata mille anni".

"Vedo che sei ancora qui". Sorin tossì, emettendo una nuvoletta di nebbia nera dalla bocca. "Saresti dovuta andartene".

"L’ho fatto. Sono tornata su Zendikar mentre veniva sventrata dagli Eldrazi. Tu hai permesso che accadesse". Sollevò la spada fino al livello della gola di Sorin. "Tu hai condannato me e il mio mondo".

"Quando hai acconsentito a intrappolare i titani su Zendikar, eri conscia dei rischi. Sapevi anche che una loro fuga sarebbe stata possibile".

"Sapevo anche che avevamo un accordo". Nahiri sentì la sua pelle diventare rovente. "Se si fossero liberati, tu e Ugin sareste dovuti accorrere. Quando è successo, non è stato possibile trovarvi. Dal mio punto di vista, noi tre avevamo preso un impegno, insieme. Invece, sono rimasta da sola. Tutto quel tempo, da sola".

"Quindi hai deciso di condannare questo mondo".

"Sono stufa di rimanere a guardia e Zendikar non sarà più una prigione. Emrakul doveva andare da qualche altra parte. Tu hai semplicemente reso la scelta del nuovo piano molto semplice".

"Sorin, sono tentata di rimanere spettatrice di questa scena", disse una voce di donna, melodica e pungente, proveniente dall’alto. Nahiri alzò la testa e vide un vampiro, abbigliato da capo a piedi in un’elegante armatura nera di piastre, che fluttuava sopra di loro a capo di una decina di vampiri dallo stesso abbigliamento. Non indossava alcun elmo e il pallido volto e la brillante chioma rossa spiccavano rispetto allo scuro metallo. Aveva un portamento elegante che sembrava propagarsi da lei e Nahiri riconobbe un potere simile a quello di Sorin. Quella donna era una succhiasangue di un’antica categoria.

"Senza dubbio, Olivia", disse Sorin dalla sua posizione inginocchiata.

Olivia fece un cenno verso Nahiri, con una delicata spada lavorata in acciaio nero. "È lei, deduco". Senza attendere conferma, si rivolse a Nahiri. "Qualsiasi gesto abbia compiuto Sorin per scatenare la tua ira, sono sicura che se la sia meritata. Ma si è meritato anche il mio aiuto, quindi non posso permettere la tua vendetta".

"Un altro angelo guardiano, Sorin? Questo l’hai creato un po’ in fretta, direi", disse Nahiri. Allargò un braccio e le lastre in pietra davanti a lei iniziarono a prendere un colore rosso per il calore.

Olivia sorrise. "Sorin, devo dire che mi piace. Ma purtroppo...". Al suo segnale, i vampiri si lanciarono su Nahiri.

Le pietre davanti alla litomante diventarono bianche dal calore e, prima che i succhiasangue riuscissero ad arrivare a lei, estrasse il contenuto delle pietre roventi, quattro lame, identiche a quella che brandiva, ognuna pulsante dell’energia della loro forgiatura. Ne afferrò una, in modo da averne una per mano. Le altre rimasero in aria sopra di lei, come la chioma di una fenice.

Illustrazione di Chris Rahn

"La mia vendetta non è affar tuo. Io me la sono guadagnata. Sorin è mio".

"Non ti dimenticare", sibilò Sorin, "che ti ho risparmiata. La Tomba Infernale è stato un gesto di cortesia".

"Un gesto di cortesia", ripeté Nahiri, con le dita che si muovevano leggermente. Lo avrebbe potuto ridurre a brandelli. "Gli orrori con cui mi hai rinchiusa per così tanto tempo... sono diventati il mio mondo".

Pronunciando quell’ultima parola, Nahiri affondò le punte delle sue spade in una delle lastre di pietra. Strinse i pugni e le armi iniziarono a vibrare. Il movimento risuonò nel pavimento e crebbe in intensità e in estensione. Ciò che all’inizio era un leggero ronzio divenne un rombo che scosse la struttura circostante. Intensi fasci di energia eruppero dalle sue mani a rapidi impulsi, propagandosi lungo le lame, finché non irradiarono lungo la roccia e raggiunsero ogni pietra del maniero.

Una manciata di pietre spuntò intorno a lei, tutte dirette verso l’esterno, in modo da formare una specie di stella.

Poi il maniero oscillò. Le mura che aveva creato per isolare lei e Sorin svanirono e l’intera sala iniziò a ruotare indipendentemente dal resto dell’architettura. Mentre ruotava, le fondamenta cigolarono come giunti di una qualche divinità che si sollevava per la prima volta dopo un’eternità. Fu un suono assordante e barcollò sull’orlo della resistenza.

Poco dopo, iniziò un altro suono. A ogni centimetro di rotazione della sala, il suono aumentò di intensità. Era un suono fastidioso, non molto diverso dalle cantilene dei cultisti, ma non era indirizzato alle persone.

L’arco di ingresso si spostò insieme alla imponente sala, in modo da non portare più alla strada rialzata e in rovina oltre l’uscita del maniero. Quando il movimento circolare si arrestò, l’uscita era in direzione di una liscia parete di pietra. Il suono ultraterreno aumentò. Senza lo stridio della pietra a coprirlo, lo sentì fino nelle radici dei denti. Era giunto il momento. Nahiri utilizzò la sua magia e strati di quella parete si spostarono in direzioni diverse.

Ancor prima di spostarlo, l’ultimo strato esplose in una pioggia di detriti e uscirono. Orde di mostri, bulbosi e contorti, solo vaghi accenni delle persone e degli animali che erano stati un tempo. Ora erano Emrakul, toccati dal titano Eldrazi e con le carni allungate sopra le loro forme mutate in un reticolo nerboruto e aggrovigliato.

Illustrazione di Darek Zabrocki

Nahiri li aveva raccolti fin dall’arrivo di Emrakul e li aveva rinchiusi nella sua cripta, per diventare un dono per il suo vecchio amico.

Nahiri li osservò fluire dalla loro nera camera e inondare la sala davanti a lei. Non fece alcun movimento. Gli incubi non erano una novità per lei. Si avvicinarono e, proprio nel momento in cui quella terribile orda si stava per abbattere su di lei, la evitarono. Quei mostri non la potevano vedere all’interno del suo anello di pietra. Criptoliti, li aveva sentiti descrivere dai cultisti, nonostante fossero tutt’altro che criptici. Gli Eldrazi seguirono le leyline, la rete di mana presente su tutti i mondi. Proprio come aveva fatto su Zendikar seimila anni prima, Nahiri aveva plasmato queste pietre per incurvare le leyline di Innistrad secondo la sua volontà. Per quegli orrori, stava occupando uno spazio vuoto da realtà. Per loro, lei non esisteva.

Non era però il caso dei vampiri. Gli Eldrazi si lanciarono verso di loro e il vampiro dai capelli rossi, insieme ai suoi lacchè, non perse tempo e si gettò tra le mostruosità con tutta la furia della sua specie.

Illustrazione di Karl Kopinski

Nahiri si allontanò dal caos e blocchi di muratura si spostarono per formare una scala improvvisata che saliva fino alle parti alte del maniero. La salita portava sopra le traiettorie delle lame dei vampiri e i movimenti delle membra reticolari. Sorin aveva puntato a sconfiggerla con i suoi alleati, ma Nahiri era stata pronta. Sorin aveva puntato a sconfiggerla con la sua magia di morte, ma Nahiri era stata pronta anche per quella.

Era però lui pronto per lei?

Lei sentì gli occhi di lui su di sé e, quando trovò Sorin nel subbuglio sotto di sé, lui la stava osservando. Il sangue colava lungo il suo mento e un cultista giaceva ciondolante tra le mani del vampiro. Non era la prima volta che lo vedeva nutrirsi, ma non era mai apparso così mostruoso come in quella occasione. Quell’immagine svelava ciò che lui era in realtà: un mostro.

Gli occhi di Sorin non l’abbandonarono mai, neanche durante la salita. Si muoveva come un lampo e il cultista penzolante veniva scosso violentemente mentre lui scattava sulle pareti contorte e sui blocchi di muratura che fluttuavano in aria. Era come un felino durante una caccia, rapido e sicuro nei movimenti. Prima che Nahiri fosse arrivata sulle rovine stabili del soffitto a volta del maniero, Sorin le fu quasi addosso.

Nahiri era un kor di Zendikar, dopo tutto. Saltare da un luogo precario all’altro era la sua seconda natura. Era anche la litomante e qui, in un ambiente di contrafforti sparpagliate, guglie e intere ali del maniero sparse in infiniti frammenti, si trovava nel suo elemento. Era appollaiata sullo stipite di un’alta e stretta finestra, su una parete che era appesa nell’aria e sfidava la forza di gravità. Le sue spade orbitavano sopra la sua testa, come una corona di lame che segnava il suo dominio. Era il momento per vedere se Sorin sarebbe stato all’altezza.

"Ora possiamo portare a termine ciò che abbiamo iniziato, senza venire interrotti", disse Nahiri a Sorin, che si rialzò dopo essere atterrato sul pianerottolo di un’ampia scala. Un lungo tappeto rosso si stendeva sugli scalini rimanenti, per poi finire nel vuoto come la lingua di un animale morto.

"Hai un desiderio così grande di morire?", disse Sorin. "L’ultima volta che ci siamo incontrati, la mia forza era enormemente ridotta. Temo che non sarai così fortunata questa volta". Lanciò il cadavere del cultista contro Nahiri come se fosse uno straccio e lei udì qualcosa rompersi all’interno del corpo, che era andato a sbattere contro la pietra di fianco a lei. "E io ho tutte le intenzioni di ucciderti".

"Pensi di spaventarmi?".

"Se non sei spaventata ora, lo sarai". I suoi occhi erano colmi di crudeltà, pura e antica.

"Non me ne andrò finché non sarà finita, Sorin".

"Su questo siamo d’accordo, ragazzina".

Ragazzina. Senza altre parole, Nahiri fece volteggiare le spade e ne afferrò una. Sorin scattò di lato e ogni lama affondò nella roccia sotto i suoi piedi e, prima che potesse riprendere una posizione stabile, Nahiri prese il controllo del pianerottolo su cui si trovava e lo capovolse.

Per un attimo, Nahiri pensò che sarebbe rimasto appeso, ma le sue dita non trovarono la presa e cadde.

Il pesante tappeto rosso oscillò in quel movimento e Nahiri vide le dita di Sorin stringersi sul tessuto e, improvvisamente, stava oscillando invece di cadere.

Nahiri strattonò il lastricato del pianerottolo, sbriciolando l’intera struttura. Quando stava per cadere, Sorin lo lasciò andare e lo slancio lo fece arrivare fino a un’imprevedibile trave. Da lì, si lanciò su una parete in frantumi e poi a un’altra trave posizionata in diagonale. Tutto sembrò accadere in un istante e Nahiri riuscì a mala pena a seguire i suoi movimenti.

Poi lo perse di vista. Lui era velocissimo e, prima che lei cambiasse posizione sulla sua finestra per seguire i movimenti di lui al di sotto, ne aveva perso le tracce.

Per molti istanti, i suoi occhi scattarono da una parte all’altra, furiosamente, alla ricerca di un qualsiasi movimento. Poi vide un lampo di argento e tutto ciò che Nahiri poté fare fu rientrare nella parete in modo che la lama di Sorin rimbalzasse con un rintocco assordante, che risuonò a lungo attraverso la pietra.

Avvolta nella muratura, Nahiri udì le parole di Sorin, smorzate ma astiose. "Nahiri, Nahiri, tutto questo per un po’ di tempo nella Tomba Infernale. Dopo tutto, sembri così a tuo agio all’interno della pietra".

Ci fu un sonoro crepitio e un’ondata di tormento da un lato, come una punta rovente. Il suo riparo di pietra era stato sfondato. Lo percepì e sentì anche l’acciaio nelle carni. Raschiando, la lama ritornò indietro e, prima che potesse colpire di nuovo, Nahiri si lasciò cadere dalla presa della parete e improvvisamente si trovò a precipitare in aria. Portò una mano verso il bruciore sul fianco e lo trovò umido.

Alcuni frammenti di balaustra salirono verso di lei. Cercò di afferrarne uno, ma la sua mano, ora viscida per il sangue, scivolò e lei continuò a precipitare. Sentì il sangue palpitare negli occhi e il mondo iniziò a girare, finché non si fermò all’improvviso quando sbatté con violenza contro la superficie di una imponente guglia disposta orizzontalmente nella lunghezza del soffitto.

Appena riuscì a trovare forza a sufficienza, Nahiri si sollevò, lentamente. Si appoggiò a una costruzione in pietra che sporgeva dalla superficie della guglia. Era rimasta senza fiato e la bocca sembrava secca nonostante il sapore del sangue che la riempiva.

Al rumore di stivali sulla guglia davanti a lei, sollevò lo sguardo e vide Sorin rialzarsi dopo l’atterraggio. Lui si fece avanti e arrivò davanti a lei, con la spada sollevata e minacciosa, proprio come un migliaio di anni prima, quando l’aveva condannata alla prigionia nella Tomba Infernale. Questa volta non ci sarebbe stata alcuna Tomba Infernale.

"Hai avuto la tua occasione di uccidermi, ragazzina. Avresti dovuto coglierla, finché ne hai avuto la possibilità". Non vi era alcun compiacimento nelle parole di Sorin. Erano le parole di un maestro che si rivolgeva a un’allieva, nel suo ultimo insegnamento.

"Forse", rispose Nahiri, sebbene si rivolgesse più a se stessa. La sua spada giaceva nella sua mano, con la punta diretta verso il terreno. Il dolore si propagava dal taglio profondo sul suo fianco. La sua mano libera era appoggiata alla ferita e tremò nel momento in cui lei abbassò lo sguardo verso di essa.

C’era un sacco di sangue.

Che cosa poteva essere un po’ di sangue? Fece un sospiro profondo e parlò. "Indipendentemente da ciò che avverrà, che io sopravviva o no, ho vinto io, Sorin. Guardati intorno". Nahiri fece debolmente un gesto con la mano verso il maniero. "Osserva con attenzione ciò che ho fatto a tutto ciò che ritieni essere tuo". Indicò alla sua sinistra. In lontananza, sopra la città, si vedeva Emrakul. "Nessun angelo di tua creazione verrà a salvarti questa volta".

La spada di Sorin scattò, stordendo Nahiri. "Ciò che mi hai tolto con Avacyn, me lo riprenderò con il tuo sangue". Prima di riuscire a contrarre un solo muscolo, sentì i denti di Sorin affondare nel suo collo. Tutto il sangue nel suo corpo cambiò direzione. Sorin lo chiamava a sé ed esso bruciò nelle sue vene. Lui bevve profondamente e Nahiri colse l’occasione.

Si appoggiò alla muratura dietro la schiena ed essa rispose al suo movimento aprendosi ai suoi lati. Ogni battito era un tormento, ma si sporse per sussurrare "Anche io ti posso azzannare e i miei denti sono più grandi dei tuoi".

La pietra si richiuse su di loro e file di roccia frastagliata si conficcarono in Sorin, dalle gambe alle costole. La spada gli cadde di mano e uno strillo di dolore esplose dalle sue labbra. Nahiri si liberò dalla sua presa e penetrò nella solida roccia, allontanandosi da Sorin. La roccia si strinse su di lui e lo afferrò. Quando Nahiri terminò con la sua opera, Sorin si ritrovò sospeso in aria, intrappolato nella magia di Nahiri. Non avrebbe potuto fuggire verso un altro piano in questo modo. I denti di pietra che lo trattenevano gli perforavano le viscere, tenendolo in un costante tormento che avrebbe disperso la concentrazione necessaria per lasciare questo piano.

Nahiri fece poi ruotare Sorin e la roccia che lo teneva, in modo che avesse di fronte la pianura di fronte al Maniero Markov. Sorin tentò di parlare, un incomprensibile gorgoglio, e Nahiri si arrampicò sul bozzolo che aveva costruito. Ciò che lui aveva da dire non era per lei importante. Lei voleva che fosse lui ad ascoltare le parole di lei. Con una mano aggrappata al culmine della pietra, Nahiri si abbassò in modo da poter sussurrare nelle orecchie di Sorin. "Ti ho risparmiato", gli disse Nahiri. "Ti restituisco il gesto di cortesia".

Illustrazione di Cynthia Sheppard

In lontananza, sotto un soffitto di nuvole turbolente, Emrakul.

Dopo un istante, Nahiri abbandonò Innistrad, lasciando Sorin al destino del suo mondo.


All’orizzonte, Emrakul. Sorin non poteva fare altro se non osservare la fine di Innistrad, che vagava lentamente da Gavony verso Thraben. Le persone non erano ora di suo interesse, ma Innistrad era suo e Thraben era la città dove aveva creato Avacyn per proteggerlo. Vederlo ora sull’orlo della rovina generò una fitta che lo ferì molto più dei denti di pietra della litomante che si erano fatti strada nelle sue viscere.

Sorin lo percepì un istante prima di udirlo... metallo contro la pietra, un lungo e lento graffio che saliva sul retro del suo sarcofago.

"Devo proprio dire che questa mi piace di più", disse una voce colma di derisione. Poi vide Olivia spostarsi di fronte a lui e coprire la vista del caos. In mano aveva la sua spada.

"Olivia", disse Sorin a denti stretti, "liberami".

"Anche se io potessi, perché dovrei farlo? Avacyn è morta. Nahiri non è più su questo piano. Il nostro patto è concluso". Sogghignò crudelmente. "Direi che questa è una vittoria. Cerca di godertela anche tu. Il Maniero Markov è tuo, tutto sommato. Per quanto riguarda me", sollevò la spada di Sorin per esaminarne la lama, "mi piace molto il suono delle parole 'Olivia, Signora di Innistrad'".

Ogni brandello di pazienza venne improvvisamente sommerso da un’ondata di disperazione. Questo mondo era condannato. Olivia sarebbe stata la sua unica via di fuga. "Osserva!", disse lui, appoggiandosi alla pietra inflessibile. Olivia diede un’occhiata dietro le proprie spalle, ma non rispose. "Lo vedi", continuò lui, "quello è ciò che sta arrivando! Hai visto ciò che causa, ciò che è in grado di fare". Ora stava parlando più velocemente e la sua voce si incrinò. "Avrai bisogno del mio aiuto per occupartene!".

Sorin non gradì il modo in cui Olivia lo guardava mentre lui parlava. Lei era un ragno e lui una mosca. "Ascoltami!", cercò di nuovo di convincerla. "Che vantaggio ottieni, se non c’è un domani?".

"Avacyn è morta. E tu", rispose lei, premendo la punta della sua stessa spada contro la sua guancia, “tu ti trovi intrappolato. Non mi sembra che la situazione sia così pessima". Tutto ciò che Sorin poté fare fu osservare Olivia uscire dalla sua vista ed Emrakul e la fine che lei aveva promesso riempirono di nuovo la sua vista.


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Planeswalker: Sorin Markov

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