Non andare a caccia nel Kessig, dicevano. I cani ti troveranno.

Forse questa frase era stata vera nel periodo immediatamente successivo alle Tribolazioni, quando qualsiasi felino veniva divorato dai lupir, ma ora non lo è più. Quei cani sono in via di estinzione e i boschi sono un nuovo terreno di conquista. Dicono che si possa sempre distinguere un Falkenrath per la sua ostinazione per la caccia, la sua natura avida e la sua inarrestabile brama di stringere gli artigli su quel cibo che fa di tutto per non essere divorato. Essere un Falkenrath significa dimorare in alto, in modo da essere visti da tutti durante le attività di caccia.

Illustrazione di: Darek Zabrocki

Klaus non è affatto diverso. I suoi piedi colpiscono l’erba in modo secco, il sangue cola dal suo mento viscido sulle foglie tinte di rosso dell’Ulvenwald e i proiettili gli sfiorano le orecchie. Nonostante tutto, sul suo volto è dipinto un ghigno. Lo hanno individuato, va bene. Magari quel travestimento da monaco errante era stato un affronto eccessivo... dato che la truppa di cacciatori dietro di lui sembrava proprio inferocita. Non sapeva neanche che avessero così tanti proiettili con sé... quel thunk thunk thunk suonava come il battito delle nocche di un gigante contro gli alberi intorno a lui.

Un tronco abbattuto gli sbarra il cammino; salta su di esso e coglie l’occasione per osservare i suoi inseguitori. Erano cinque, di cui due robusti e dalle spalle larghe, armati di balestre più simili a balliste che a qualsiasi arma trasportabile. Non male. Ma presto le loro armi non avrebbero fatto alcuna differenza.

Quel pensiero scatena una risata nel profondo del suo petto. Ogni goccia del suo sangue raffinato alchemicamente era un richiamo per il crepuscolo... e il crepuscolo era finalmente giunto. Una melodia si fa strada dentro di lui, un culto che implora l’avvento di una divinità mai vista, e lui è conscio che la salvezza è vicina.

La verità è che non era mai stato seriamente in pericolo. I cani avrebbero potuto creargli problemi, gli uomini di fede avrebbero potuto creargli problemi, altri vampiri avrebbero potuto creargli problemi... ma questi umani sicuramente no. I falchi non hanno alcun timore dei topolini... neanche di topolini dotati di artigli affilati.

"Non sapevo che così tanti di voi provassero il desiderio di morire", urlò dietro di sé. Il sangue dell’antico lo faceva sentire più ardito che mai. Sarebbero riusciti gli abitanti del villaggio a dormire di nuovo, sapendo quanto facilmente lui si fosse insinuato nei loro cuori? Probabilmente no, ma questo non gli avrebbe impedito di tornare a verificarlo di persona dopo alcune settimane. È importante controllare l'andamento dei propri investimenti.

E seminare il terrore è sempre un valido investimento.

Senza rispondergli, i cacciatori scagliano i loro proiettili, con i due più grandi che fanno sibilare l'aria per la velocità e ruggiscono come tuoni. Entrambi diretti verso la sua testa. Ottimi tiri, ma lui non è un cervo, un orso o una smorfiosa creatura della foresta. Con la sua velocità innaturale, ne schiva uno e afferra l'altro. Un paletto? Accidenti, stanno proprio diventando sfrontati!

Ma oggi Klaus è di buon umore. Addirittura magnanimo per quanto è sazio, con il sangue che macchia ancora i talismani che aveva venduto agli inconsapevoli abitanti del villaggio. Con il paletto in mano, salta su un ramo sporgente. Saldo sui propri piedi, si volta per affrontare i cacciatori sotto di lui.

"Lorsignori, damigelle", dice loro. "I miei ringraziamenti per l'attività fisica. Con sincerità."

Guardali. Osserva il terrore sui loro volti, le linee profonde scavate dal timore. Patetici.

"Se voi, piccoli e teneri bocconcini, alzate lo sguardo al cielo, potete determinare che ora sia adesso", continua. Può già sentirlo, il corpo che si tende al di sotto del suo aspetto elegante e i denti che diventano più lunghi e più affilati. In tempi come questi, la forma umana è solo un impedimento. Le altre stirpi dei vampiri non sembrano comprenderlo, ma i Falkenrath sì. La forza è l’unica caratteristica che conta. La forza ha origine dal sangue e il sangue genera l'eterna separazione dalla feccia rappresentata dalla vita umana. Non è forse meglio trarne vantaggio? Non è forse meglio scoprire fino a dove ti può portare il tuo sangue?

Il suo stava iniziando a ribollire.

"Il sole sta calando, presto staremo mangiando", dice con una voce modificata attraverso la bocca che è già mutata in qualcosa di non umano; il suo corpo si allunga e prende una forma più mostruosa e spaventosa di ciò che quei popolani avessero mai visto. La sua voce si trasforma in un profondo ringhio che svela la sua fame.

La loro paura è un ingrediente molto gustoso per lui. Le pupille dilatate e il respiro spezzato mentre lo osservano! La luna si affaccia tra le nuvole per un istante; la sua luce argentea illumina il suo volto e lo dipinge in un modo ancor più terrificante, ancora più malvagio. L'aria si riempie di trepidazione.

Klaus mostra i denti.

Tutto questo è il normale corso della natura.

E, magari, anche ciò che avviene dopo; i cacciatori si scambiano sguardi d’intesa e le loro labbra si incurvano in ghigni repellenti quanto quello di Klaus. Uno dopo l'altro, lasciano cadere le armi. Il più grosso di loro, un uomo che aveva più l’aspetto di una tavola di legno che di un umano, si mette a ridere con un tono tanto profondo quanto affamato.

Appena il tempo di prepararsi: la luce della luna raggiunge con il suo tocco delicato i cacciatori in attesa e i loro corpi esplodono dai vincoli della carne e assumono la loro vera forma: bestie torreggianti, con lingue che penzolano dai musi e una pelliccia che non riesce a nascondere gli enormi fasci di muscoli che ricoprono ogni angolo dei loro corpi selvaggi. I due più grandi sono più simili al sogno di un cucitore rispetto a qualsiasi cane avesse visto fino a quel giorno, con busti imponenti come le botti di birra che preparava con suo padre e braccia robuste come il tronco dell'albero su cui si trova in questo momento.

La sua gola si chiude.

"Quella frase in rima", ringhia il capo, "si applica solo agli umani".

Klaus comprende molto bene quando è il momento di correre, quando di fuggire e quando di puntare verso il cielo come i falchi che tenta di emulare. Decide quindi di saltare dal ramo. Se riesce a cambiare forma abbastanza in fretta...

Ma non ne è in grado.

I cani, dopo tutto, sono in grado di afferrare qualsiasi cosa vogliano che si trovi a mezz’aria.

Le fauci si stringono sul suo petto. Sbatte contro il terreno ancor prima di rendersi conto di ciò che sta avvenendo, con i lupi che si muovono in cerchio intorno a lui e lo osservano come se al posto di un potente vampiro centenario si trovasse un semplice sacco di carne.

"Non potete farmi questo", balbetta. "Non è così che funziona. La notte..."

"La notte appartiene a coloro che decidono di dominarla", continua il capo appena prima che le sue labbra si trasformino in un muso.

E queste sono le ultime parole udite da Klaus.


Osserva il proprio fiato prendere la forma di una nuvoletta di fronte al suo volto.

Con un po’ d’impegno, può distinguere ogni tipo di forma appena prima che si dissolva: le ali di un angelo in posizione solenne, lupi che ululano e pipistrelli che si muovono in cerchio. Qualcuno, da qualche parte, potrebbe addirittura tentare di determinare la sua identità partendo solo da quelle immagini. Anche lei aveva sentito parlare di quel tipo di capacità; sacerdoti che ti chiedono ciò che vedi nel cielo e lo utilizzano per determinare le tue paure.

Arlinn Kord sa bene chi è, ma non avrebbe difficoltà se qualcun altro parlasse di lei. Soprattutto in questo periodo. Innistrad è per lei “casa” e lo è sempre stato, ma non si è mai presentata una situazione come questa. Ovunque si volga lo sguardo, tutto è ricoperto di brina. Frammenti di ghiaccio pendono dai grandi alberi che lei graffiava da bambina, un leggero strato bianco ricopre i mantelli e i cappotti degli abitanti del villaggio e il rumore familiare delle foglie calpestate si è modificato in qualcosa di diverso. Le meridiane le rivelano che sono quasi le sei del pomeriggio, ma l’orologio nel centro del villaggio dice che sono solo le quattro e mezza. Il sole tramonta sempre più presto.

E la luna sorge sempre più presto.

La luna, sempre la luna.

Arlinn, the Pack's Hope
Arlinn, la Speranza del Branco | Illustrazione di: Anna Steinbauer

Riesce a percepire la luna anche in questo momento, seduta nella vecchia dimora, mentre racconta alla moglie che farà del proprio meglio per indagare sui recenti omicidi.

"Stanno avvenendo ogni notte, vero?", le chiede la donna al suo fianco. La sua voce è poco più di un sussurro. "Di notte, sento che si chiamano l’un l’altro. Il mio Finneas dice sempre che, se facciamo attenzione ai nostri simboli, saremo al sicuro, ma la notte scorsa. . ."

Nell'altra stanza, il sangue del suo Finneas è intriso nelle pareti di colore rosso. Arlinn deglutisce a fatica. I suoi occhi si spostano sul simbolo di Avacyn appena sopra il focolare, per metà una pietra massiccia e per metà un insieme di fili e paglia. Le Tribolazioni hanno lasciato un segno su Innistrad, ma la fede è difficile da sconfiggere. Anche nel caso in cui ciò in cui si ripone la fede crolla in modo così pesante come è stato per Avacyn.

"Non ha alcun senso", dice la donna, Agatha. "Il suo compito era proteggerci. Tutto sembrava. . .per un certo tempo, era. . ."

Arlinn mette la propria mano su quella di Agatha. A volte, nonostante le probabilità siano impossibili, una semplice connessione umana è in grado di comunicare con una voce propria. Agatha annusa l'aria. Alza lo sguardo verso il simbolo, per poi spostarlo immediatamente verso il pavimento.

"Non siamo sole", le dice Arlinn. "Per quanto tetro possa sembrare l’oggi, l'alba arriverà, in un modo o in un altro."

"Per te è facile dirlo."

Ma non è affatto facile. Soprattutto per Arlinn, che ha un ricordo molto intenso della lancia sollevata dell’angelo. Per settimane dopo le Tribolazioni, i suoi lupi non volevano avere più nulla a che fare con la società degli umani e lei non poteva biasimarli. Vivere tra gli umani voleva dire respirare le loro sofferenze e sopportare il loro peso. I boschi erano origine di vita, mentre le strade, le chiese e i villaggi erano un insieme di morte senza limite.

La morte è ovunque su Innistrad e voltarle le spalle significa voltare le spalle alla bellezza delle imprese umane. Vivere nei boschi è più facile, certo; più semplice, senza dubbio; ma la sensazione di trionfo della caccia è molto lontana da quella del trionfo di un villaggio che resiste all’assalto della notte. Costruire un luogo dove i bambini non hanno bisogno di anni per sconfiggere il terrore del buio, con ricompense che durano generazioni.

Si reca quindi nei villaggi e nelle cittadine del Kessig, per fare il possibile per fortificarli contro l’oscurità.

Agatha dà un’altra occhiata al ceppo nel camino. Adagiandosi nella vecchia e usurata sedia, si stringe ancor di più nel mantello del marito. Anche il suo fiato si condensa in nuvolette. Arlinn prende in considerazione l’idea di chiederle cosa vede in esse.

"Signora Kord", le dice.

"Sì?"

"Si sta facendo buio, vero?"

Arlinn deglutisce a fatica. Uno sguardo fuori dalla finestra è sufficiente a confermare le paure di Agatha. Entrambe si rendono conto della risposta. Porre quella domanda fa capire molto bene quanto in difficoltà l’abbia messa la morte del marito la notte precedente; gli abitanti del Kessig raramente si affidano alle loro superstizioni per sentirsi al sicuro dai pericoli che preferiscono non nominare.

Meglio essere sincera. "Sì, penso di sì."

Agatha solleva le ginocchia. "Gustav e Klein dicono che i loro raccolti non stanno crescendo nel modo in cui dovrebbero. Il gelo è stato un danno e non ricevono neanche la luce necessaria."

"Il Raccolto non è lontano", risponde Arlinn. "Dovrai aumentare le scorte, ma dovrebbe essercene abbastanza per nutrire tutti per questa stagione. I cacciatori possono occuparsi del resto."

"Questa stagione", ripete Agatha. "E la prossima? E cosa succede quando tutti i nostri cacciatori sono. . ."

Fa un gesto in direzione dell’altra stanza, al sangue che Arlinn può sentire nel fondo della propria gola. Quell’aroma richiama una parte primordiale del suo essere, una parte che dice che i cacciatori troveranno più carne che mai, con così tanti lupi tra di loro.

"Dicono che fosse un vampiro. Ci credi? Un vampiro qui?", dice Agatha. "Lo hanno inseguito. Mi hanno chiesto se volevo vedere il suo cuore. Hanno detto che è stato facile ucciderlo."

"Penso di averli visti venendo qui", risponde Arlinn. "Sembrava. . .come uno spaventapasseri, ma più grande. Con zanne. Una specie di effigie."

Sul viso di Agatha appare un leggero sorriso. Sembra un miglioramento. "Quella è opera della strega. Finneas pensa che sia una buona idea e che ci possa essere d’aiuto. Pensavo che lo fosse."

Arlinn si versa un’altra tazza di tè. Nell’aria gelida, i riccioli di vapore salgono dalla tazza e si dirigono verso il soffitto. L’intenso sapore delle erbe rende quella sala grigia leggermente più luminosa.

"Tieni", le dice. "Tutte quelle lacrime ti avranno fatto venire sete, anche se non te accorgi."

Sorride di nuovo e avvicina la tazza alle labbra. "È buono. Non so che cosa tu abbia aggiunto, ma le spezie danno un sapore caldo."

"Questa è una vecchia ricetta di famiglia", risponde Arlinn. Si basa su ciò che le era sembrato buono all’olfatto l’ultima volta che era andata nei boschi. "Se la rivelo, mi tormenteranno."

Agatha emette una specie di risata... un respiro breve seguito da uno più lungo. "Non si può sapere."

"No, non si può", risponde Arlinn. Si versa anche lei una tazza. "Ho un’idea. Mentre beviamo queste tazze, parliamo delle nostre famiglie. Io ti racconto dei miei fratelli e tu mi racconti di Finneas."

Il suo gesto per annuire con il capo è quasi nascosto dal gigantesco maglione di lana. "D'accordo. Posso... posso farcela."

"Mi fa piacere", risponde Arlinn. "E poi mi puoi dire di più su quella strega."


Arlinn conosce questi boschi e loro conoscono lei. Ovunque si posi il suo occhio, un ricordo la accoglie. Qui... i graffi su una quercia durante una vecchia caccia. Lei e i suoi lupi avevano seguito un cervo bianco nella foresta per due giorni. Pensavano che sarebbe stato più facile trovarlo, ma c’era qualcosa in quel cervo, qualcosa che la stregava ogni volta che ne individuava l’odore. Una volta accerchiato e intrappolato alla base di una scogliera, lo avevano lasciato libero. A volte, era sufficiente la soddisfazione di aver messo la preda alle strette.

Non è però ciò che il lupo le dice. Ricorda di averlo avuto di fronte, con gli occhi di un colore rosato misto di sangue e acqua e la pelliccia lucente come la neve che aveva sognato così spesso. Ricorda la fame crescente nel profondo dello stomaco. Quando sei a quattro zampe, è così facile sentire i sapori, è così facile mordere e strappare e ferire con gli artigli. I lupi mannari di fianco a lei le avevano comunicato in modo chiaro le loro intenzioni, con i loro cupi ringhi e lo stridio dei denti. Anche loro erano affamati.

Ma c’era un qualcosa in quel cervo, qualcosa che le comunicava che non era destinato ai loro stomaci. La bellezza innocente era rara su Innistrad, rara quanto l’innocenza, e non sarebbe stata lei ad abbatterla. Arlinn prese la sua forma umana. Nonostante fossero contrariati, i lupi si fermarono e non dissero nulla; lei, invece, sussurrò una benedizione.

A quel punto, il cervo bianco corse via.

I lupi avevano ripreso la loro caccia.

Alla fine trovare un altro pasto non era stato difficile. Si erano messi a letto, tutti e cinque, raggomitolati gli uni sugli altri, con le pance piene di carne non proprio benedetta.

Al risveglio del mattino dopo, di fronte a loro era un teschio sorretto da una spada conficcata nel terreno. Una pelliccia bianca era attaccata all’osso. Conosceva quella spada, conosceva l’odore che proveniva dalle carni del daino e comprendeva il messaggio.

Tovolar non aveva mai apprezzato la sua propensione alla gentilezza.

Ovunque sia e qualsiasi cosa stia facendo non sono più una sua preoccupazione. Avevano scelto sentieri diversi molto tempo fa. Lui aveva trovato un branco e lei anche.

I lupi hanno sono impazienti di incontrarla e desiderosi di giocare. Trovate le streghe, aveva detto loro e loro erano stati contenti di poterle offrire il loro aiuto. Ogni pochi minuti entra nel bosco per rispondere a una loro chiamata, solo per trovare un ramo dalla forma bizzarra che l'attende e il lupo di turno che la osserva speranzoso. Lo ringrazia, ovviamente, e fa tesoro degli indizi raccolti anche da quegli strani rami.

Illustrazione di: Rovina Cai

Più penetrano nel profondo dei boschi, più muta l’aroma del luogo. Un aroma aspro brucia all’interno delle sue narici, seguito poco dopo da un caldo sapore di cannella. Tornata alla forma umana, ha la possibilità di osservare i rami in modo più accurato; in effetti c’è un indizio. Una serie di mezzelune e di cerchi, intagliati da una mano attenta. All'estremità, pendente da uno dei rami più piccoli, si trova un frammento di opale rifinito. Strizza gli occhi. Si tratta di incisioni decorative oppure. . .Agatha aveva detto che Finneas seguiva indicazioni segrete per trovare l’enclave.

Arlinn dà al compagno una forte carezza tra le orecchie. "Ottimo lavoro", gli dice. "Sparpagliamoci... in quella direzione."

Il lupo balza, si abbassa e poi scatta come un proiettile. Lei impiega un solo istante per cambiare forma e seguirlo. Lui è il più veloce del branco. I lupi non possiedono nomi nel modo a cui sono abituati gli esseri umani, ma sembra sbagliato trascorrere così tanto tempo con qualcuno senza assegnarne uno. La linea bianca lungo il fianco di questo e la sua sorprendente velocità gli hanno meritato il nome di Saetta. La sua compagna, Zannarossa, li segue a un buon ritmo, sempre attenta nei confronti di possibili pericoli. Pazienza, che ha ricevuto questo nome per averla attesa di fronte alle porte della cattedrale ogni giorno, è a pochi metri da Zannarossa. A volte riesce anche a superare la compagna. Macigno, il più robusto e più amichevole di tutti, chiude il gruppo, con la lingua a penzoloni.

Ora che sa ciò che deve cercare, seguire i simboli diventa molto più facile. Può dedicarsi a pieno alla caccia, apprezzando le foglie al di sotto delle sue zampe, la frizzante aria della foresta e i sensi carichi di vitalità. Correre rapidamente su quattro zampe appare molto più naturale che passeggiare su due. A volte pensa di non essere mai riuscita davvero a correre nella forma umana.

L’ululato entusiasta di Macigno è solo il primo. Tutti lo sentono, il brivido del prorompente mondo selvaggio, con i pericoli di Innistrad allontanati dall’euforia del momento. Arlinn si unisce a loro. Almeno in questo momento, vuole sentirsi libera.

Ma, non appena l’ululato iniziale termina, lo vede di fronte ai suoi occhi: un cervo, di un puro colore bianco, al di sotto di un ramo decorato con intagli d’argento. Il pallido sguardo di quegli occhi rosa incrocia quello di lei.

Arlinn si blocca sul posto. I peli sulla sua schiena si rizzano e intima agli altri di non muoversi. C'è qualcosa che non va. Non potevano essercene due; poi, incontrarlo proprio qui tra tutti i luoghi possibili. . .qualcuno stava cercando di ingannarli.

Ma lei non sarebbe caduta in quella trappola. Un respiro profondo dell’aria circostante le dona maggiori informazioni, come anche vedere il cervo che si allontana lentamente dal gruppo. Per prima cosa, il suo odore non è quello di un cervo. Colore, sì; tonalità, anche; possedeva anche un profumo di magia, ma non di un cervo. Secondo, il suo non era il comportamento di un cervo. Qualsiasi animale della foresta sarebbe fuggito di fronte a un branco di lupi. L’unica eccezione era data da altri lupi mannari. Ma quello non era neanche un lupo mannaro.

Il cervo passeggia intorno a loro. Zannarossa abbassa il muso e ringhia al suo avvicinarsi. Il cervo si allontana e incrocia di nuovo lo sguardo con Arlinn. Il modo in cui piega la testa è l’ultimo indizio che le serve.

Arlinn ordina immediatamente agli altri di non muoversi. Scivola dietro a un albero e riprende la forma umana. Pazienza le si avvicina con la sua sacca in pelle, da cui lei estrae i vestiti.

"Katilda, vero?", la chiama. "Mi auguro che mi concederai un istante per rendermi presentabile."

I boschi intorno a lei sembrano mettersi a ridere e lei sente il brivido lungo la sua schiena mentre muta la propria forma. Solo in quel momento si guarda intorno e si rende conto di essere al di sotto di uno degli imponenti archi in pietra del Celestus. Qualcosa di quella struttura le ricordava sempre gli ingranaggi di un orologio. Si diceva che a volte quegli imponenti bracci ruotassero intorno alla piattaforma centrale, che a sua volta era grande come un villaggio. Arlinn non lo aveva mai visto avvenire con i propri occhi, ma aveva un’idea degli antichi rituali che avrebbero potuto causarlo.

Dovevano essere penetrati nel profondo dei boschi, di cui la madre di Arlinn ammoniva sempre, dicendo di tornare indietro appena vedesse gli anelli spezzati che fuoriuscivano dal terreno. Da bambina, si domandava come fosse scalare quell’ampia superficie piatta e se gli abitanti di Thraben si svegliassero ogni mattino con quel tipo di paesaggio. Forse, se ci fosse andata lei stessa, avrebbe potuto far finta di essere una qualche nobile viziata. Ora, da adulta, osserva gli intagli lungo la superficie butterata con preoccupazione e le lenti con evidente disagio. Sua madre aveva ragione nell'ammonirla riguardo al Celestus. Qualsiasi fosse stato il suo utilizzo, sarebbe stato meglio lasciarlo nel passato.

Illustrazione di: Jonas De Ro

"Se mi perdoni per il mio piccolo inganno, io perdonerò il fatto che ti stia vestendo", le risponde. La sua voce è allo stesso tempo ammaliante e distante. Suona alle orecchie di Arlinn come una matrona di un villaggio che ha compreso da molto tempo di aver di fronte colei che le ruba i pezzi di torta che si stanno raffreddando. "I lupi di questa foresta non hanno un comportamento così controllato. La maggior parte di loro si sarebbe lanciata all'attacco."

Arlinn gira intorno al tronco. Dove un tempo erano solo alberi e sottobosco, ora vede un’enclave: rami e pelli posizionati a formare tende decorate con le stesse mezzelune e sfere che aveva visto in precedenza. Candelieri fluttuanti immergono quel luogo in un’atmosfera di mistero, completata dagli strani spaventapasseri in ogni direzione. Arlinn aggrotta la fronte. Candelieri guida, questo era il nome con cui li chiamava sua madre. Una vecchia storia narra di un candeliere che aveva salvato un ragazzo che si era perso nei boschi, riportandolo fino al festival del Raccolto. Un’altra racconta di cacciatori che si recavano nell’Ulvenwald alla ricerca di pelli. Il primo anno, nessuno di loro era tornato. Il seguente, erano apparse queste guide, nate dalle preoccupazioni della loro famiglia. Non aveva mai pensato che ne avrebbe vista una di persona e ancor meno di vederne così tante. I ghigni incisi nei loro volti da cui scendeva la cera. . .solo su Innistrad immagini come quelle potevano essere di conforto.

Ma ci sono anche persone all’interno dell’enclave... una ventina. Alcune donne, alcuni uomini e alcuni dall'aspetto che sfuggiva a una facile identificazione. Abbigliati con copricapi elaborati, sussurrano incantesimi vicino ai candelieri guida. Un uomo dalla pelle scura incide un ampio ghigno in una zucca, mentre le pietre lunari oscillanti del suo copricapo luccicano alla luce. Due donne si trovano ai due lati di un pentolone ribollente. Forse a causa dell’aria gelida, Arlinn riesce a vedere il fumo che si solleva a pochi metri di distanza. Insieme alla vista del fumo, giunge anche l’odore di un delizioso stufato.

Una donna è seduta di fronte a loro su un tronco ricoperto di muschio, con un bastone in grembo. La sua chioma bianca è avvolta più volte intorno alle varie sporgenze del suo copricapo; sulla sua pelle scura sono dipinte mezzelune e sfere, che si mescolano con i suoi lineamenti. Non è facile determinare se sono i lupi o Arlinn che attirano di più la sua attenzione... ma lei trova questa situazione divertente.

"Non siamo tutti lupi", dice Arlinn. Osserva l’enclave stringendo gli occhi. "E immagino che voi non siate tutte streghe."

Non possono esserlo...Arlinn non percepisce aroma di malvagità in questo luogo. Per quanto le ombre proiettate dai loro copricapi possano essere spaventosi e per quanto le pitture modifichino in modo bizzarro le loro fattezze, non ci sono dubbi sul fatto che siano umani. Che è già un elemento rassicurante... sebbene non abbia alcuna idea delle loro intenzioni. La magia di questo posto non ha l’odore solito degli altri tipi di magia. È come se qualcosa fosse stato lasciato a fermentare, donando un aroma di antico.

"Dipende dalle persone a cui poni questa domanda", risponde Katilda. "Prima dell’arrivo dell'arcangelo, eravamo quasi tutte streghe. Dopo il suo arrivo, ci siamo nascoste nelle ombre e, ora che non c’è più, siamo tornate alla luce."

Arlinn inclina il capo. "Non mi sembri così anziana."

"Non è necessario che io fossi presente in questa forma e con questo nome", risponde Katilda. Indica il bastone e l’albero di fianco ad Arlinn. "Una ghianda non è una quercia. Però, con il tempo, l’acqua, il sole... può diventare una quercia. Per noi è lo stesso."

"Voi siete in grado di far ricrescere", commenta Arlinn. "Chi sei?"

Illustrazione di: Bryan Sola

"Noi siamo ciò che era un tempo e ciò che sarà. Noi siamo ciò che l’oscurità non può uccidere. Siamo la congrega Albacorno." La donna parla con una voce che suona come tre e i suoi occhi si dilatano a ogni sillaba. L’estremità del suo bastone risplende. Lo mette a contatto con il terreno. La boscaglia circostante prende vita, cresce rapidamente e assume una forma bizzarra. Dopo pochi secondi, Arlinn la riconosce: il capo fiero del cervo bianco. "E chi sei invece tu, lupo?"

"Il mio nome è Arlinn Kord", risponde. Non guarda il cervo-boscaglia negli occhi, neanche quando fioriscono. Conosce bene l’aroma di belladonna. "Non esisterà alcuna congrega Albacorno se non ci saranno altre albe... e, a questo ritmo, a breve non ci sarà più un’alba. Sono qui alla ricerca di risposte."

"Non me ne hai date." Un altro tocco del bastone di rampicanti riempie i vuoti all’interno della testa del cervo. Fa due passi in avanti e china il capo di fronte a Katilda: un servitore al cospetto di uno strano sovrano. "Ma questo per ora lo teniamo da parte. Le mie risposte per te sono evidenti come la foresta che ti circonda e il battito del tuo cuore umano."

Saetta fa battere la coda contro il terreno. Anche Arlinn si sente più impaziente. Questa strega, questa Katilda... perché queste persone non riescono a essere dirette? "Potresti essere un po’ più chiara?", le risponde. "La mia vista non è più quella di un tempo."

La strega sfiora la testa del cervo con il bastone. Si forma una corona di rami e fiori. "Esiste un rituale proprio per questo."

Arlinn non segue con lo sguardo il cervo che si allontana, ma lo tiene fisso su Katilda. "Se c’è qualcosa che ho imparato è che i rituali non sono mai facili."

"In questo si trova il loro potere; un rituale concentra la comunità e le sue tradizioni. Con il tempo, centinaia di persone aggiungono la propria fede al suo potere, che cresce ben oltre ciò che un singolo mago potrebbe solo sognare di ottenere", dice Katilda. "L’arcangelo ci ha distratte da queste tradizioni. Dobbiamo recuperarle... dobbiamo recuperare il Raccolto."

Avacyn non aveva distratto nessuno da nulla... ma non è questo il momento per affrontare questa discussione. Per quanto potesse bruciare nel petto di Arlinn, non è il momento adatto. "Il Raccolto? Come negli antichi racconti?"

"Esatto, proprio quello", risponde Katilda.

"Tè speziato e pasticcini?", chiede Arlinn. Il fuoco brucia più caldo. Essendo una sacerdotessa di Avacyn, Arlinn sapeva bene quanto forte fosse la protezione dell’arcangelo. "Come possono proteggerci?"

"Il Raccolto è molto di più", risponde. "Il sole e la luna si alternano nel cielo. Il Raccolto è il momento dell’umanità, la nostra celebrazione di un altro anno di vita. Abbiamo vissuto troppo a lungo nella paura e ci siamo affidati troppo a lungo a forze esterne per farci salvare. Noi siamo la nostra salvezza. Unendoci..."

"Aspetta", la interrompe Arlinn, sollevando le mani. "Quante persone vuoi unire?"

"Tutti quelli che verranno", risponde Katilda con la pazienza di una sacerdotessa di un villaggio. "Insieme, possiamo fare ricorso alla nostra forza collettiva al di sotto del Celestus e, attraverso esso, ristabilire l’equilibrio."

Arlinn scuote la testa e la sua esasperazione diventa visibile. "A questo punto, potresti mandare una lettera a ogni predatore di Innistrad. Radunare così tanti umani è un evidente invito a un attacco. Ci sono già state abbastanza morti; non vogliamo mettere in pericolo ancora più vite basandoci su una vecchia storia che hai letto su qualche libro..."

"Non l’ho letta su un libro", risponde Katilda. La sua voce si fa tagliente e si alza anche dal suo tronco. Arlinn viene sorpresa da quella donna imponente e solida come le querce che ha lodato. Un leggero aroma di terriccio colpisce l’olfatto di Arlinn... ma non ha senso. Katilda non è un ghoul. "Ci saranno guardiani, Arlinn Kord. Guardiani che possono ora applicare ciò che hanno appreso e respingere l’oscurità. Vuoi riportare l’alba su questo mondo? Molto bene. Non riuscirai a farlo senza prima riportare la speranza perduta."

Zannarossa emette un ringhio. Seguita da Saetta. Il loro disagio riecheggia nel petto di Arlinn; non c’è alcun modo in cui questa situazione possa finir bene. Nonostante ciò, osserva in modo serio la vecchia strega, che rimane salda.

"Non mi hai ancora detto come funziona questo rituale", le risponde Arlinn, "dando per scontato che noi non verremo uccise prima dell’inizio."

"Noi?", risponde la strega, senza soffermarsi sulla battuta tagliente. Indica invece l'arco del Celestus con il bastone. "La risposta, come ti ho già detto, è proprio qui. Usiamo il Celestus. Al suo centro si trova un sigillo di oro lucente... abbiamo bisogno della chiave di selenargento per attivarlo. Ti sei mai chiesta a cosa servisse? I nostri progenitori la utilizzavano proprio per questo, per mantenere l’equilibrio tra giorno e notte."

"Nei boschi del Kessig, circondati dai nemici."

"Certo. Per alimentare le fiamme..."

"... della speranza", termina la frase Arlinn. "E se noi non lo facessimo? Se trovassimo un altro modo..."

"Non esiste un altro modo", risponde Katilda con voce salda. "Se il Celestus non viene attivato... E non viene attivato nel modo giusto... la notte prevarrà sul giorno. Geist, ghoul, vampiri e lupi mannari... banchetterete con le nostre carni, finché..."

"Io non..."

Un rumore si fa strada nella foresta e interrompe la sua frase. Un ululato, ruvido e profondo. Un suono che risveglia il lupo che è in lei. Il suo branco risponde e lei percepisce il loro entusiasmo e il loro desiderio di caccia.

Lei conosce molto bene quell’ululato. Lo ha sentito per la prima volta anni fa, rinchiusa nella sua stanza, mentre osservava il simbolo che avrebbe dovuto tenerla al sicuro. E si era allontanata dalla dimora della sua famiglia, con mani e piedi contro l’umido terreno di mezzanotte, correndo verso di esso con tutte le proprie energie... perché narrava di un mondo in cui non esisteva la paura.

La prima volta che aveva udito quell’ululato era stato venti anni fa... la prima notte in cui aveva assaporato il sangue, la prima notte in cui aveva provato la sensazione di libertà.

Anche adesso, quell’ululato risveglia qualcosa dentro di lei.

Tovolar.