Riposo eterno
Contributi addizionali alla storia a cura di Monique Jones.
Kaya era seduta con la schiena appoggiata a un angolo, le gambe su una sedia e lo sguardo verso la porta. Non voleva ovviamente far capire che stava tenendo d’occhio la porta, in un luogo come quello. Il suo sguardo era quindi sulla sua tazza di tè e ogni sorso le permetteva di osservare la porta.
Era una buona tazza di tè, scuro, freddo e aromatizzato al miele. Non un tè che si potesse acquistare in un posto come questo. Quel locale era chiamato “Nido di vespe” ed era il tipo di posto perfetto per incontrare personaggi sgradevoli. L’uomo che stava aspettando era un rispettabile nobiluomo, quindi il personaggio sgradevole era, di conseguenza, lei. Ma non è mai detto.
I suoi compari andavano e venivano alle note di un mandolino suonato maldestramente e nessuno teneva lo sguardo troppo a lungo sugli affari di nessun altro. Taverna, bar, pozza, salone... questi luoghi erano gli stessi in decine di mondi.
Kaya aveva lanciato al barista una moneta per pagare le bevande che non avrebbe bevuto e un’altra per non essere disturbata. Il suo potenziale datore di lavoro era solo qualche minuto in ritardo, ma Kaya era rimasta al suo tavolo, con la sua tazza di tè, a farsi un’idea dell’ambiente. Stava valutando la possibilità di spendere un’altra moneta per acquistare il silenzio del suonatore di mandolino, quando il suo contatto arrivò. L’uomo portava un iris inserito in una spilla, elemento distintivo che avrebbe indicato a Kaya come identificarlo, ma si rese conto che era lui ancora prima di notare la spilla... sotto quelle vesti trasandate si notava un portamento preciso e militare. Nella sua mente, Kaya alzò gli occhi al cielo.
Kaya aveva dato istruzioni riguardo alla sua casacca, che aveva uno stile peculiare in quella città. Il luogo era caldo e Kaya aveva sbottonato la casacca, rivelando ora una semplice maglietta, ma l’uomo con la spilla incrociò il suo sguardo e si diresse direttamente verso di lei. Molto discreto!
Il soldato troneggiava sul tavolo di Kaya. Kaya non si mosse, se non per far cenno di sedersi. L’uomo si piegò verso il tavolo e chiese “Sei tu la cacciatrice?".
"Colpevole", rispose Kaya. "Deduco che tu non sia il mio cliente".
"Sua grazia è pronta a incontrarti", disse l’uomo, facendo un gesto verso la scala. "Al piano di sopra".
Ovviamente. Sua grazia non si sarebbe mai fatto vedere in un luogo come questo. Probabilmente era entrato dall’ingresso posteriore.
Kaya si alzò con un movimento fluido, sorridendo.
"Fammi strada".
L’uomo aggrottò la fronte e si incamminò verso la scala. Kaya richiuse la casacca e lo seguì su per le scale e lungo un breve corridoio. Al termine del corridoio, l’uomo bussò due volte a una porta dall’aspetto identico alle altre, poi la aprì e fece cenno a Kaya di entrare.
La stanza era angusta e vi era solo un piccolo scrittoio al posto del letto. Dietro a questo scrittoio era seduto l’uomo che era venuta a incontrare: Emilio Revari, terzo discendente di una nobile casata di media influenza. Dietro di lui, sull’attenti, si trovavano due servitori dalle vesti eleganti, il cui compito era probabilmente stato trasportare quello stupido scrittoio.
Revari aveva una chioma ordinata e vesti raffinate. Era seduto come un giovanotto, in una posizione impertinente e risoluta, ma i suoi lineamenti e le pieghe della pelle indicavano che la sua età era più vicina ai 40 che ai 30. Le offrì il sorriso insipido e accondiscendente dei nobili, con solo i suoi oscuri e guizzanti occhi a tradire la sua impazienza.
"Prego, siediti", le disse, facendo cenno a una sedia sul lato vicino dello scrittoio, con una mano ricoperta di anelli. Uno era un sigillo con la sua effigie personale e gli altri avevano un aspetto prezioso e costoso.
L’uomo con la spilla richiuse la porta e si mise nella posizione tipica delle guardie del corpo, di fianco allo scrittoio.
Kaya si sedette, con le spalle verso la porta. Non era la sua posizione preferita. Si mise comoda nella sua sedia.
"Don Revari", gli disse con un movimento correttamente rispettoso.
"I miei ossequi. E io ho di fronte la signora...?".
"Kaya andrà bene".
Anche Kaya era di origini nobili, nonostante non avesse mai avuto un buon rapporto con la sua famiglia. Fin da quando aveva lasciato il suo piano di origine, non aveva avuto motivo di rendere nota la sua stirpe. Lei ne era a conoscenza. Quello era ciò che contava.
"Ebbene", disse lei, prima che lui potesse parlare. "In base a cosa ritieni che io possa esserti d’aiuto?".
Alcuni potenziali datori di lavoro avevano frainteso la sua attività... cercando di assoldarla per furti, spionaggio o semplici assassini. Non si era posta alcuno scrupolo nell’andarsene o nel saltare direttamente alla parte della conversazione in cui avrebbe deciso se svolgere il compito richiesto oppure no.
Revari si mosse in maniera disagiata sulla sedia.
"Qualche tempo fa", rispose, "in occasione della morte della mia amata madre, ho ereditato i suoi possedimenti in questa città. Mio fratello, il duca, le aveva assegnato un maniero per vivere serenamente la sua vecchiaia. Quel maniero ora appartiene a me. Ho pazientato per l’appropriato periodo di lutto, ho inviato dei lavoratori per ristrutturare la dimora e mi sono preparato a stabilirmi".
I Revari erano tornati a Paliano. Fratello minore del duca, Emilio aveva il diritto di rimanervi. Ma questo maniero nell’entroterra, una residenza talmente grande da ospitare decine di soldati o un paio di famiglie di discrete dimensioni, sarebbe stato ancora più accogliente per un nobiluomo viziato e il suo seguito.
"Ho sentito dire che i tuoi lavori di ristrutturazione stanno durando più del previsto", rispose Kaya.
In qualsiasi luogo si recasse, teneva le orecchie ben aperte e le voci che giravano in città contenevano molte teorie sui motivi dei ritardi del completamento dei lavori. Don Revari era rimasto senza soldi. Continuava a cambiare idea sugli arredi. La sua amante continuava a cambiare idea sugli arredi. La dimora era infestata. La dimora era maledetta. Un veggente truffatore gli aveva detto che la dimora era maledetta, quando invece... e così via. Poiché l’aveva convocata per assoldarla, Kaya si era fatta un’idea chiara su quale di quelle voci fosse quella giusta.
"Notevolmente", rispose Revari. "All’inizio si trattava di piccole cose. Attrezzi che sparivano, riparazioni che venivano disfatte. Ho pensato che fosse una questione di pigrizia e di superstizioni. Ma la situazione ha continuato a peggiorare e ora non ho più dubbi: la dimora è infestata. I lavoratori non vogliono metterci piede neanche di giorno, per paura dei fantasmi, e le persone stanno iniziando a mettere in giro dicerie".
Uno spettro da oltre il velo della morte covava rancore nei suoi confronti e lui era preoccupato della sua reputazione.
"E la causa è... un semplice fantasma", rispose Kaya.
Revari si agitò.
"... che si è insediato proprio dopo la morte di vostra madre?".
Revari riprese contegno.
"L’identità di questo spirito", sbuffò, "non è affar tuo. Il punto è che c’è un fantasma nella mia dimora e voglio che se ne vada. Mi hanno detto che questo è ciò di cui ti occupi tu".
Piccolo signorotto viziato. La madre di Kaya non le avrebbe mai permesso di parlare in quel modo alle altre persone, indipendentemente dal loro stato sociale.
"Questo è ciò di cui mi occupo", rispose. "Ma io non sono una semplice sterminatrice, Don Revari, e i fantasmi non sono esseri infestanti. È necessario che io conosca i retroscena del caso, in modo da prevedere al meglio le azioni di questo fantasma".
Lui rispose annuendo con il capo e il suo volto si fece rosso.
"Ho motivo di ritenere", disse lui, "che mia madre... si stia rifiutando di abbandonare le mura".
"Huh", disse Kaya. "Avete un’idea sul perché?".
"È rimasta avvinghiata a questa casa per decenni", disse in tono sprezzante Revari. "Avrebbe potuto lasciarmela in qualsiasi momento e io mi sarei assicurato che qualcuno si prendesse cura di lei. Invece no. La casa era sua e lei non voleva lasciarla. Allora ho atteso, pazientemente. Ora è morta, il periodo di lutto è terminato ed è giunto il mio turno. Voglio entrare nella mia casa".
Kaya annuì, lentamente.
"Sono solidale alla vostra causa, Don Revari", rispose lei. "Accetto il lavoro".
"Oh, bene", disse lui in modo caustico.
Kaya ignorò questo fatto. Forse sua grazia non aveva l’abitudine di vedere valutate le sue richieste. Lei aveva immediatamente provato fastidio per quell’uomo. Ma Kaya avrebbe ricevuto con piacere il denaro di un nobiluomo fastidioso per aver liberato il mondo da un’altra anima che non era riuscita a terminare le proprie faccende finché ne aveva avuto il tempo.
"Mi avete portato la planimetria dell’edificio?".
Uno dei servitori fece per consegnare una custodia cilindrica in legno, ma Revari alzò una mano.
"L’ho portata", rispose. "La planimetria originale e le modifiche. Ma continuo a pormi una domanda... perché ne hai bisogno? Sembra più utile per un furto che per una caccia ai fantasmi".
Kaya si mise a ridere.
"State dicendo che sono una ladra?".
"Insomma... voglio dire, per cos’altro sono utili?".
Lei si sporse in avanti.
"Se non vi fidate di me, non fatemi entrare nella vostra dimora", gli disse. "Posso trovare un altro cliente. E voi potete trovare qualcun altro con le mie particolari qualità o vivere per sempre con il fantasma della vostra defunta madre".
"Non sarà necessario", rispose Revari rigidamente. "Non era mia intenzione".
"Oh, bene", disse Kaya. Afferrò il cilindro in legno dalla mano del servitore e se lo mise sotto un braccio. "Lo spirito sembra favorire una parte specifica della casa? Le camere di vostra madre, magari, o la stanza in cui è morta?".
"È stata avvistata in ogni parte della casa", rispose Revari. Fece una piccola pausa, come per riflettere, e poi aggiunse: "Da ciò che ho sentito, però... nell'ala est. Secondo piano. Non nelle sue camere. Potrebbe essere il luogo in cui è morta, immagino".
"Avete visto questo fantasma con i vostri occhi?".
"No", rispose Revari. "Da quando ho ricevuto resoconti affidabili che la casa fosse infestata, non vi ho messo piede per ovvie ragioni".
"Ovvie?".
"Io sono l’intruso, no?", disse Revari. "Se la vecchia megera si vuol tenere stretta la sua proprietà, sono sicuro che non avrebbe buone intenzioni nei miei confronti".
"Potrebbe essere", rispose Kaya. "C’è qualcos’altro che devo sapere?".
"Non che mi venga in mente", disse Revari. "Te ne occuperai questa notte?".
"Domani notte", rispose Kaya. Diede una pacca alle planimetrie dell’edificio. "Una preparazione corretta ha bisogno di tempo".
"Molto bene", disse Revari. "Informami appena hai terminato, qualsiasi ora sia. Dormirò più sereno sapendo che mia madre è in ottime condizioni e pronta per il suo riposo eterno".
"Come desiderate", disse Kaya. "Ciò che rimane da concordare è il metodo di pagamento. Metà anticipato, come ho scritto nella lettera".
"Ah, certo", rispose Revari con un evidente repulsione.
Afferrò una sacca da sotto lo scrittoio. Kaya la prese senza guardarne il contenuto. Quell’uomo non era nella posizione di imbrogliarla.
"Mi sono sbagliato", disse lui. "A questo prezzo non è un furto. È un estorsione".
"Esorcismo, vostra grazia", rispose Kaya con un ampio sorriso. "Si dice esorcismo".
Prese il denaro e le planimetrie dell’edificio, si alzò, si inchinò al nobiluomo con un movimento esagerato e uscì.
La sera successiva, Kaya si alzò nel momento in cui le luci del sole calante filtrarono attraverso l'apertura che aveva lasciato tra le tende. Aveva trascorso la notte nella sua piccola stanza della taverna, bevendo tè freddo e studiando la planimetria della casa, per poi dormire tutto il giorno. Andare a caccia di fantasmi durante il giorno non avrebbe portato alcun risultato. Alcuni di loro non si sarebbero proprio fatti vedere e altri non avrebbero avuto una sostanza sufficiente per interagire con loro durante le ore diurne.
Kaya accese una candela e si sciacquò il volto con l’acqua della bacinella. Srotolò le planimetrie e le studiò un’ultima volta, canticchiando una vecchia canzone popolare e sciogliendo i nodi che si era fatta ai capelli per la notte.
Le planimetrie non avevano evidenziato vere sorprese. Si trattava di un normale maniero dell’Alta Troscan, con alcune aggiunte successive dell’era Anvar. Tutto nella norma per una dimora di quell’era, in uno dei territori feudali meno eleganti di Paliano. I lavori di restauro avrebbero presentato notevoli difficoltà... Revari aveva fornito sia il progetto originale che il prospetto in base a cui stavano procedendo i lavori, ma non vi era alcuna indicazione sulle attività completate prima della fuga dei lavoratori.
Si infilò la casacca, controllò che i suoi due stiletti fossero ben oliati e li infilò nei foderi degli avambracci. La candela si era consumata del tutto. La spense, versò la cera in un vassoio, le diede la forma di due piccole sfere e le infilò in una delle tasche della casacca.
Si guardò allo specchio e vide una cacciatrice di fantasmi ben riposata e pronta all’azione. Forse un po’ vanitosa. Forse.
Attraversò la piccola porta, scese le scale e si ritrovò nella sala comune della taverna in cui risiedeva... una taverna migliore rispetto al Nido di vespe. La barista, una donna robusta e senza un occhio, le fece un cenno.
"C’è una lettera per te", le disse, porgendole una busta senza alcuna scritta. "Consegna a mano".
Kaya sollevò un sopracciglio. L’elenco delle persone che sapevano come contattarla non era affatto lungo. Aprì la busta e diede un’occhiata al foglio contenuto. Non era esattamente una lettera; non aveva infatti alcuna parola, ma solo un simbolo. La Rosa Nera.
Il suo cuore si mise a battere più rapidamente. Era giunto il momento... il momento per il grande lavoro, quello per cui si stava preparando da un anno. Sapeva da chi sarebbe giunta la sua successiva grande ricompensa... contando che sarebbe riuscita nel suo compito.
Ringraziò la barista con una moneta in rame e uscì a gran passi.
Giunse al maniero nel momento in cui il crepuscolo lasciava il posto alla piena oscurità. Una delle pagine di Revari servì ad aprire il cancello e le porte dell’edificio, che iniziò a esplorare più rapidamente possibile. Le pesanti porte in mogano si spalancarono con un sonoro cigolio. Le richiuse dietro di sé con decisione e prese le sfere di cera dalle tasche per infilarsele nelle orecchie. Un presentimento.
Kaya diede un colpo in aria con una mano e tre fuochi fatui si accesero sulle sue dita. Non erano dei veri fuochi fatui, bensì solo luci, ma si aggiravano intorno a lei come se avessero una volontà propria, proiettando una fredda luce e profonde ombre che danzavano silenziosamente nell’ingresso.
Kaya attraversò l’ingresso ed entrò nella sala di accoglienza degli ospiti. I suoi passi smorzati riecheggiarono in quell’immobilità. All’alto soffitto era appeso un lampadario, sotto il quale evitò di passare. Una delle scalinate curve era in stile moderno e aveva un aspetto nuovo; l’altra era stata divelta e non ancora sostituita. L’intero luogo aveva un odore di polvere e di vecchio. Mise i piedi su un insieme di attrezzi da artigiano, piatti rotti e dipinti strappati. Quindi la Cara Madre era uno di quei fantasmi.
"Ehi!", urlò. "Fantasma!".
La sua voce riecheggiò nei vuoti corridoi e venne attutita dai seducenti tappeti, svanendo nel silenzio.
D’accordo.
Con cautela e con i fuochi fatui che ondeggiavano dietro di sé, si incamminò a passi verso la scalinata sul pavimento scricchiolante. Si fermò sulla balaustra in cima alla scalinata. Alla sua destra si trovava il lato occidentale dell’edificio, formato dalle camere da letto, i quartieri dei domestici e tutte le altre amenità della vita dei nobili. Alla sua destra era invece il lato orientale, simmetrico a quello occidentale, ma suddiviso in un labirinto di camere per gli ospiti, salotti e biblioteche.
Si diresse a lunghe falcate verso sinistra, contando i passi. Qualsiasi cosa il fantasma stesse proteggendo nell’ala est, il modo migliore di scoprirlo era di minacciare quell’area direttamente.
Oltre la balaustra si trovava un lungo corridoio, con salotti su un lato e una grande porta doppia alla fine. Dietro l’altra parete, secondo la planimetria, correva un lungo e angusto passaggio per i servitori. Non erano stati eseguiti lavori e il pavimento ricoperto da tappeti era libero, fatta eccezione per un servizio da tè in frantumi, lasciato cadere da qualche maggiordomo terrorizzato. Kaya ci girò intorno.
"So che sei qui!".
Questa volta, un vento gelido investì il corridoio, accompagnato da un lamento che sembrò provenire contemporaneamente da ogni direzione.
"Molto inquietante!", disse Kaya. "Vuoi anche sbatacchiare qualche finestra? O magari lanciare qualche piatto?".
La maggior parte degli spiriti odiava i vivi e quasi tutti detestavano essere presi in giro.
Una figura spettrale apparve quasi in fondo al corridoio, come se si fosse aperto un sipario. Aveva le sembianze di una donna anziana, brillante e semitrasparente, con i lineamenti distorti dalla morte e dall’età. Le sue gracili braccia terminavano in minacciosi artigli e il suo scialle andava a finire in un qualcosa che aveva l’aspetto di una coda. Sul suo volto da dolce vecchietta si aprivano fauci piene di denti appuntiti. Volteggiò non vicino alle doppie porte al termine del corridoio, bensì di fronte a una delle porte laterali. Kaya fece attenzione a quale porta fosse.
"Eccoti qua!", disse Kaya.
Il fantasma urlò contro di lei, un grido penetrante che la investì come se fosse un attacco fisico. Le porte sbatacchiarono e, da qualche parte, un vetro andò in frantumi. Kaya sussultò, ma nulla di più, grazie alla cera nelle orecchie.
Afferrò i suoi stiletti e li spinse oltre il livello fisico, nel reame dei defunti. Iniziarono a brillare di un colore bianco-violaceo e divennero gelidi nelle sue mani.
"Certo, no", disse. "Il divertimento è terminato. Vattene e non tornare mai più".
Il fantasma urlò di nuovo e la caricò.
Molto bene. Non aveva quasi mai funzionato, ma Kaya pensò che dovesse comunque provarci.
Il corridoio non era largo a sufficienza per schivare gli artigli del fantasma. Kaya richiamò alla mente la planimetria e passò il dito su di essa, contando i passi. Sinistra: biblioteca. Non va bene. Troppi oggetti sparsi che uno spirito poltergeist le avrebbe potuto lanciare. Allora a destra. Il passaggio dei servitori. Stretto.
Attese finché la Cara Madre non fosse quasi a contatto e poi scattò verso destra.
Questa... non era la parte che gradiva di più.
Iniziò con la mano, che impugnava lo stiletto. La luce spettrale e i brividi della morte si diffusero lungo il suo braccio, quasi fino alla spalla, mentre mano, stiletto e tutto il resto passarono nel reame dei defunti e attraverso la parete. Prima che la sua spalla potesse attraversare la barriera, la sua mano si trovava già nel passaggio dei servitori. Riportò la mano nel mondo fisico, ancorandola al reame dei vivi.
La luce spettrale consumò il suo capo e il suo corpo, intensa e gelida. Tirò a sé anche il braccio e la gamba e ritornò nel mondo dei vivi, andando a sbattere contro il lato opposto del piccolo passaggio angusto, con la sua spalla ora tornata corporea. L’intero movimento era durato, forse, un battito del cuore. Non che il suo cuore battesse davvero nel momento in cui attraversava quella barriera. Non osava mai rimanervi a lungo.
Si voltò e si immerse di nuovo attraverso la parete, per tornare nella sala principale, dove il fantasma confuso era volato oltre la sua posizione, seguito dal suo scialle.
Illuminò uno dei suoi stiletti e bloccò lo scialle a una parete.
Il fantasma venne strattonato e si fermò, urlando, girandosi e osservandola con i suoi defunti occhi bianchi.
"Ciao", disse Kaya.
Il fantasma cercò di colpirla, ma Kaya bloccò l’attacco con l’altro stiletto, trafiggendo il palmo nodoso del fantasma. Gli occhi defunti si spalancarono.
Questa era la parte divertente... osservare un fantasma immortale e senza sostanza comprendere che si era messo contro qualcuno in grado di contrattaccare.
La Cara Madre si divincolò da lei, ululando e ringhiando, strappando lo scialle per liberarsi dallo stiletto di Kaya. Da scialle e mano colavano scie di fumo scintillante... sangue di fantasma, più o meno. Poi il fantasma svanì, salendo attraverso il soffitto del corridoio.
Kaya era in grado di compiere molte delle azioni dei fantasmi, ma non quella. Si voltò e corse verso la porta da cui il fantasma era apparso inizialmente.
La Cara Madre emerse dal pavimento di fronte a lei e Kaya si gettò a sinistra, attraverso la parete, in quella che sembrava una specie di camera da letto nella planimetria. Era stato previsto un restauro, ma nessun cambiamento drastico...
La camera non aveva alcun pavimento. Era solo una voragine aperta, con travi sporgenti. Kaya poté vedere solo una scalinata a chiocciola terminata a metà, prima di superare il bordo. Quello non era nelle planimetrie.
Segreti! Perché i nobili insistevano sempre nel voler avere segreti?
Kaya lasciò cadere uno dei suoi stiletti... non ebbe il tempo di rimetterlo nel fodero... e ruotò per afferrare una delle travi con la mano destra ora libera. Lo stiletto atterrò sferragliando al primo piano.
I suoi fuochi fatui la raggiunsero e lei analizzò la situazione. I suoi piedi erano sospesi, un paio di metri sopra un pavimento irregolare, e la mano che reggeva il suo intero peso doleva. Davanti a lei si trovava una specie di intercapedine, di mezzo metro di altezza, tra i pavimenti. Infilò lo stiletto con la sua mano libera. Sarebbe probabilmente potuta atterrare senza slogarsi una caviglia, ma non ne poteva essere sicura... e, anche in quel caso, si sarebbe ritrovata al primo piano.
Sopra di lei, il fantasma volteggiò urlando attraverso la parete, poi apparve confuso. La coda dello scialle ciondolò succulentemente vicina. Kaya si fece oscillare avanti e indietro, due volte. Sempre avere un piano...
... e mai farvi totale affidamento. Lasciò andare la trave, si immerse nel gelido reame dei defunti e chiuse le mani spettrali sullo scialle spettrale.
Colse di sorpresa il fantasma, che sbandò verso il basso più di mezzo metro, ringhiando e vorticando. Si sollevò poi in volo fino al terzo piano, in movimenti frastornanti, attraverso quella che doveva essere una camera da letto, gridando per l’affronto. Kaya non avrebbe voluto farsi trasportare a lungo... il fantasma avrebbe potuto portarla in ogni tipo di luogo disgustoso. Verso l’alto, per esempio. Valutò il movimento di rotazione del fantasma, preparò il momento giusto per il salto e si lasciò andare dalla sua coda.
Attraversò una parete laterale della camera da letto trasformata in caduta libera, si piegò su se stessa e rotolò sul pavimento della stanza inferiore. Le persone normali avevano la tendenza a sottovalutare la quantità di acrobazie necessarie per la caccia ai fantasmi.
Balzò in piedi e sguainò lo stiletto che le era rimasto. Aveva perso il conto dei passi, ma, se non aveva commesso errori, questa era la stanza di fronte alla quale era apparso il fantasma.
Era una specie di sala da tè, ma completamente sfasciata. La mobilia in frantumi era ovunque e il terreno scricchiolava per i vetri rotti e le schegge delle porcellane. In un angolo si trovava una pila di detriti...
La Cara Madre fluttuò urlando attraverso al parete, proprio mentre Kaya stava prendendo coscienza della situazione.
Ala est. Non le camere della madre. Un’intercapedine. E ora uno strano mucchio di detriti in un angolo di quella che altrimenti era una stanza come le altre, ma a cui sembrava che il fantasma avesse un’attenzione particolare.
Kaya si mise in posizione di combattimento, con il suo stiletto pronto a colpire, brillante di luce spettrale. Lo spirito cambiò direzione questa volta, cosciente del fatto che Kaya fosse in grado di ferirlo.
"Aspetta!", disse Kaya, spostandosi verso l’angolo.
La maggior parte degli spiriti era troppo contorta dal furore o dall’afflizione per poterci ragionare, ma magari...
La Cara Madre urlò di nuovo e i frammenti di vetro e porcellana tremarono sul pavimento.
Kaya si nascose dietro una pesante credenza rovesciata, mentre ogni scheggia della stanza saettò verso di lei. Le schegge si scontrarono con la credenza e lei sentì alcune di esse impigliarsi nei capelli. La Cara Madre sarebbe arrivata subito dopo...
Kaya balzò verso l’angolo, scorgendo con la coda dell’occhio un ritratto rovinato, gioielleria e assi del pavimento con profondi graffi.
"Ti ho detto di aspettare!", urlò Kaya, sollevando una mano. "Ti capisco!".
Questa volta, il fantasma si fermò.
Tenendo lo sguardo fisso sul fantasma, Kaya spostò di lato i detriti, infilò lo stiletto tra due assi lacerate del pavimento e fece leva. Sollevò un’asse e poi una seconda.
In quello spazio trovò il cadavere avvizzito di una donna anziana. Il fantasma ululò e questa volta suonò più per l’afflizione che per la rabbia. Kaya osservò il cadavere e poi riportò lo sguardo sul fantasma. La somiglianza era impressionante.
Kaya diede un’occhiata agli oggetti che aveva messo da parte. Gioielli, anelli e gemelli da uomo. Una maglietta, di un taglio da uomo, ridotta a brandelli. Un ritratto, anche questo tagliuzzato, di un nobiluomo in posa. E, tra i gioielli...
Un anello con un sigillo. Un anello con un sigillo dall’aspetto familiare.
"Che tu sia...".
Kaya attese nell’ingresso perfettamente illuminato della dimora modesta ma non infestata di Don Revari, in piedi, cercando di resistere alla tentazione di battere i piedi. Passò una mano tra i capelli, rimuovendo quelli che sperava sarebbero stati gli ultimi frammenti di porcellana e infilandoseli in tasca. Meglio tra i capelli che nello scalpo, in ogni caso.
Era quasi mezzanotte, ma le era stato permesso di entrare. Nonostante l’ora tarda, Revari in persona si presentò nell’ingresso, con tutti i vestiti addosso, compreso un cappotto.
"Il lavoro è terminato?", chiese lui. I suoi occhi brillavano dall’avarizia.
"Dopo questa notte, Don Revari, vostra madre potrà riposare in pace".
"Accompagnatemi", rispose lui. "Voglio vedere la casa".
"Non stavamo parlando di fiducia?", disse Kaya con uno sdegno evidente.
"Mi hai reso un servizio dal costo elevato", disse Revari. "Non è inappropriato voler verificare il lavoro prima di effettuare il pagamento".
"D’accordo", rispose Kaya. "Portate però il denaro con voi. Non è mia intenzione tornare fino qui".
"Come desideri", rispose Revari gelidamente.
Non fu una lunga camminata, ma Revari decise di utilizzare una carrozza, con un cocchiere e una guardia del corpo davanti e lui e Kaya all’interno. Revari pose una serie di domande sull’attività di lei, apparentemente per semplice curiosità e per l’opinione condivisa da così tanti nobili che tutto sia di loro pertinenza, se lo desiderano.
"Ci sono dei... resti... quando li uccidi?".
"Ogni fantasma è diverso", rispose Kaya, non per la prima volta. "In questo caso sì, c’è un residuo fisico".
"Ah", disse Revari. "Vorrei vederlo. Deve essere... sepolta?".
"Dipende da voi e dalla vostra religione", rispose Kaya. "Non sono quel tipo di esorcista".
Ciò che Kaya faceva era considerato blasfemia da alcuni, una modifica inopportuna dell’ordine naturale della vita oltre la morte. Ma altre credenze consideravano l’esistenza del fantasma come modifica inopportuna dell’ordine naturale e Kaya la persona che lo ripristinava. Era stata coperta di benedizioni in alcuni luoghi ed era fuggita da altri, tutto per aver compiuto le stesse azioni. Qualsiasi sia il destino finale dei defunti su un determinato mondo, Kaya era dell’opinione che non venisse compiuto semplicemente rimanendo ancorati al mondo ed essendo una scocciatura per i vivi.
Revari annuì soddisfatto. Le credenze religiose di cui era molto rispettoso, sospettò lei, non richiedevano di pagare per un altro funerale, a meno che non fosse costretto.
Arrivarono al maniero. La guardia del corpo, il cocchiere e il denaro per il pagamento di Kaya rimasero con la carrozza, mentre Revari seguì Kaya verso la porta. Aveva portato una lanterna, in modo che Kaya non fosse costretta a utilizzare i suoi fuochi fatui.
La scena nell’ingresso era la stessa di prima. Revari sussurrò dall’angoscia mentre analizzava i detriti.
"Sarà necessario un mese solo per pulire tutto questo, prima di poter ricominciare i restauri", disse. "E sto dando per scontato che riuscirò a convincere i lavoratori a oltrepassare la porta".
Si voltò verso Kaya.
"Saresti disposta a, ecco, dare prova della tua opera? Dire loro che possono tornare qua dentro senza avere paura?".
"Posso essere persuasa", rispose Kaya, provocando solo altri borbottii da parte di Revari.
Salirono la scalinata, con Revari che faceva oscillare la lanterna come un giovane cacciatore impaziente durante la sua prima notte nei boschi. Si fermò in cima alla scalinata.
"Vorrete esaminare l’ala est, ne sono sicura", disse Kaya. "Il vostro suggerimento è stato molto utile. È proprio dove l’ho trovata".
"Sì", rispose Revari. "Sì, certo. E tu sei... sicura che non ci sia alcun rischio?".
"Sicura come la vostra stessa dimora, vostra grazia".
Annuì e si incamminò nell’ala est, con la lanterna che ondeggiava. Saltò a ogni folata di vento e a ogni cigolio delle assi del pavimento. Kaya camminava di fianco a lui.
"Eccoci", disse Kaya, facendo un cenno verso la porta chiusa della stanza dove aveva trovato il corpo della donna anziana.
"Qui?", chiese Revari.
"Qui è dove è avvenuto", rispose Kaya.
Il respiro di Revari accelerò.
"Entra per prima", le disse.
Kaya sorrise in modo rassicurante, aprì la porta ed entrò. Revari sbirciò attraverso la porta, poi entrò, lentamente. Tenne la lanterna in alto e le ombre della mobilia in frantumi della stanza incombevano in un modo che sembrava folle.
Con cautela, Kaya richiuse la porta dietro di lui.
"E ora", disse lui, con la gola secca, guardandosi intorno. "Dov’è questa...".
Puntò lo sguardo nell’angolo in cui Kaya aveva fatto leva sulle assi del pavimento e poi si voltò di scatto verso di lei.
"Che cos’è questo?", disse in tono sprezzante. "Che cos’è questo?".
"So ciò che avete fatto", rispose Kaya. La sua voce era tranquilla, misurata, calma.
Il volto di Revari era rosso e le sue vene pulsavano.
"Qualsiasi cosa tu stia cercando di estorcermi...".
"Non voglio nulla da voi, sterminatore della vostra stessa stirpe", rispose Kaya. Fece un cenno dietro di lui. "Lei è quella di cui dovreste preoccuparvi".
La Cara Madre era apparsa, addolorata ed eterna, dietro il suo imprevedibile figlio. Revari si voltò. Kaya si coprì le orecchie.
"No", disse lui. "No. Vi prego, Madre...".
Il fantasma urlò e Revari cadde in ginocchio, afferrandosi la testa. La lanterna cadde a terra. Kaya la raccolse e la spense, lasciando la stanza illuminata solo dalla fredda luce della defunta.
Revari si voltò verso di lei, bloccato sulle ginocchia e con gli occhi spalancati.
"Aiutami", le disse. "Ti pagherò... ti pagherò il doppio!".
"La tua stessa madre", gli rispose Kaya. "Puoi marcire all’inferno".
Il fantasma della madre avanzò lentamente verso di lui, con una predisposizione alla teatralità che Kaya poté apprezzare. Revari si trascinò sui gomiti finché non sbatté contro la porta chiusa.
"Tu... bugiarda", disse. "Ti ho pagata per, per, per sistemare le cose! Fermala! Fai il tuo lavoro!"
"Sono inadempiente", rispose Kaya. Non gli aveva mentito, non proprio, ma non aveva neanche portato a termine il lavoro. "Riferirò ai tuoi tirapiedi che potranno tenere l’altra metà".
Lui ringhiò e scattò verso di lei, ma le gambe di lei divennero spettrali e lui le attraversò e rotolò dietro di lei con un grido strangolato.
"Ti prego...".
Poi, il fantasma ululante della madre gli fu addosso con i suoi denti aguzzi e gli artigli affilati. Kaya oltrepassò la porta chiusa in un lampo di luce bianco-violacea, lasciando madre e figlio ai loro tristi e patetici affari. Kaya si sistemò la casacca, si voltò e se ne andò.
Dietro di lei, Emilio Revari iniziò a urlare e continuò mentre lei scendeva la scalinata, superava l’ingresso in rovina e usciva dalle spesse porte in legno del maniero, dirigendosi verso la notte.