Tutti gli abitanti della Basilica Pallida, salvo disposizione contraria, si muovevano secondo percorsi predefiniti in base al loro rango. Gli aspiranti circolavano tra le torri vertebrali come sangue che scorre nelle arterie, ogni passo un invito per gli apoftegmi delle Incisioni d’Argento, la parola di Elesh Norn fatta metallo e carne, ad afferrarli con spasmi di delirio convulsivo. Più in alto, angeli si libravano su ali di cartilagini cucite assieme in muti pellegrinaggi tra i nidi avvolti dalla nebbia. Dal loro punto di osservazione, il movimento costante degli aspiranti non era il raduno di migliaia di elementi, ma l’opera di un grande burattinaio, la creazione di un unico sigillo divino, un cordone ombelicale che si contorceva per venire al mondo. In basso, sul suolo della cattedrale di Elesh Norn, cancellieri avvolti in ali inzuppate d’olio e rosicchiatori posseduti dalla frenesia estatica entravano e uscivano dalla Grande Annessione come vermi schiumanti che proclamavano la saggezza della loro adorata Madre delle Macchine.

Esenti da questi cicli infiniti erano i prescelti dalle legioni corazzate dell’Armata di Alabastro per sorvegliare le vie d’accesso che conducevano dentro e fuori la cattedrale vera e propria. Il loro ruolo, a differenza di tutti gli altri nella Basilica Pallida, era quello di restare perfettamente, inumanamente immobili, poiché erano lo sguardo impassibile della Madre stessa. Guai al legionario che si sottraeva a questa onorificenza anche solo per ripulire una macchia dall’armatura.

Per questo, Tezzeret non si meravigliò quando i centurioni gemelli che sorvegliavano il cancello principale non sussultarono nel momento in cui il Ponte Planare aprì una fenditura, per poi squarciare lo spazio sacro di fronte a loro. Era di nuovo sul piano maledetto di Nuova Phyrexia, con l’endoscheletro carbonizzato di Rona tra le braccia.

Illustrazione di: Camille Alquier

“Devo vedere la Madre,” abbaiò in direzione delle guardie, mentre le energie del Ponte Planare gli divoravano la carne come se a farne scempio fossero famelici avvoltoi. Non si mossero né sembrarono accorgersi della sua presenza. “È qui o nel nucleo?” Ancora nessuna risposta. “Rispondetemi, maledizione!”

“Portatelo da noi,” tuonò una voce. La sua voce. “Mandate l’altra da Jin-Gitaxias per il ricondizionamento.” A quel punto, le guardie si fecero da parte: una si occupò di portare via i resti di Rona e l’altra accompagnò Tezzeret nella lunga marcia attraverso il cortile interno. Un ronzio costante riempiva l’area, così come il tanfo dell’incenso dolciastro e leggermente acre che bruciava nel braciere centrale. C’era un fervore che Tezzeret non aveva notato prima, i momenti che trasudano tensione prima di un sacrificio rituale.

Il viaggio di Tezzeret si concluse all’interno di una sala sostenuta da montanti di porcellana simili a ossa che emergevano dalle pareti, come tante costole che si univano al centro per formare una pedana di alti gradini che conduceva al trono di Elesh Norn. Un paio di giganteschi animarchi interruppero il loro lavoro in fondo alla caverna per fissare Tezzeret mentre si avvicinava attraverso gli spazi intercostali.

“Onorata Madre,” disse inginocchiandosi.

“Non abbiamo richiesto la tua presenza,” disse Elesh Norn, la sua voce così forte che sembrava esplodere dalla testa di Tezzeret. “Perché hai abbandonato Dominaria?”

“Le nostre forze sono state sopraffatte,” iniziò il Planeswalker.

“Impossibile. La nostra vastità è onnicomprensiva.”

“Verissimo, Madre. Ma. . .c’è stato un tradimento. Rona, colei con cui sono giunto qui...”

“Una serva di Sheoldred,” disse Elesh Norn. La sua voce sembrava aver emesso una sentenza, mentre lei si alzò dal suo posto e cominciò a scendere i gradini. “Sheoldred, che è una apostata ai nostri occhi. Le sue forze si sono sollevate contro di noi per tentare una sconsiderata presa di potere. Il disprezzo della nostra misericordia nonostante le passate trasgressioni dei thane. . .Un tale sacrilegio ci addolora.”

Tezzeret quasi inciampò all’indietro. Sheoldred? Dopo gli eventi su Dominaria, Tezzeret si era convinto che Sheoldred fosse stata messa in ginocchio: un animale domestico feroce e testardo, ma pur sempre un animale domestico. Aveva già pianificato di incolpare Rona per i suoi fallimenti. Il tradimento di Sheoldred era un dettaglio squisito che aggiungeva credibilità alla sua storia di copertura.

“Rona ha recitato la sua parte alla perfezione nel piano di Sheoldred, ingannando persino me. Siamo stati sbaragliati quando le nostre stesse truppe si sono rivoltate contro di noi.”

“E i Planeswalker?” chiese Elesh Norn.

“Fuggiti.”

“Non li hai inseguiti?” L’ombra di Elesh Norn torreggiava su di lui. Istintivamente, le spalle di Tezzeret si ripiegarono su se stesse; il Ponte Planare provocò atroci fitte di dolore che lo stordirono.

“Avrei voluto farlo, Madre,” disse a denti stretti. “Ma dovevo avvertirti della presenza di una serpe tra di noi. Ero. . .preoccupato.”

Norn era adesso abbastanza vicina da sporgersi in avanti, con il braccio teso, e sollevare il mento di Tezzeret con un dito. “Provi amore per noi, vero?”

Con un affondo ben piazzato del suo braccio appuntito avrebbe potuto infilzarle la testa o staccargliela. Il piacere di quell’azione sarebbe valso l’inferno che avrebbe dovuto affrontare dopo? Morte? Se era fortunato. Tortura? Comunque preferibile a ciò che, sospettava, sarebbe realmente accaduto: il suo corpo e la sua mente strappati e deformati, la vittoria dell’olio sul suo spirito tenace, la sua fine e l’inizio della sua servitù eterna. Come era successo a Tamiyo. Come era successo a Criniera D’Oro. Tezzeret chiuse gli occhi e costrinse il cuore a rallentare, concentrandosi sul suono del suo respiro.

“Quale figlio non ama sua madre?” disse, alzando lo sguardo.

“Allora parlaci, figlio. Parlaci del nemico.”

“Abbiamo incontrato la nuovo leader dei Planeswalker. Ha colpito Rona con la sua arma terrificante.” Tezzeret osservò l’ira di Elesh Norn svanire, sostituita dall’apprensione. “Il suo nome è Elspeth Tirel.” Tezzeret lasciò che il nome galleggiasse nell’aria. In altre circostanze, assistere all’espressione sinceramente spaventata della Madre delle Macchine sarebbe stato una rara delizia da assaporare. Ma il Ponte Planare vanificava ogni piacere che avrebbe potuto provare.

“L’arma...”

“Una lama di un bianco splendente,” disse Tezzeret. “Come il frammento di una stella. Non avevamo rimedio, proprio come non ne avremo quando arriverà su Nuova Phyrexia. Concorderai che sia ormai ineluttabile.”

“Ci faremo trovare pronti,” ringhiò Norn.

“Nessuno di noi è pronto. Tuttavia, non ha più dalla sua il vantaggio della sorpresa. Dobbiamo cogliere l’opportunità...” Un’altra ondata di dolore travolse Tezzeret, costringendolo a rimettersi in ginocchio in una posizione di finta penitenza. “Il dono che mi era stato promesso,” disse, stringendosi il petto. “Con un corpo di darksteel, posso essere il tuo scudo invincibile. Credi in me come io credo in te, Madre, e insieme nemmeno il potente generale del nemico potrà vincerci.”

La vista di Tezzeret si offuscò. Era rimasto troppo a lungo senza le sue cure a Kuldotha, e ora vacillava sul filo del rasoio tra la vita e la morte, alla mercé della misericordia, e dell’ingenuità, dell’essere che odiava di più nel Multiverso. Era davvero appropriato che si ritrovasse di nuovo in questa situazione. Ed esasperante. Cadde sul pavimento, sulla schiena, incapace di concentrarsi oltre l’invisibile fuoco elettrico che si impossessava del suo corpo.

“Hai portato un tale fardello per noi,” disse Elesh Norn, accarezzando la guancia di Tezzeret con il suo artiglio. “È tempo di ricompensare la tua fede. Una promessa è una promessa.” Il disgustoso, arrogante sorriso di Elesh Norn fu l’ultima cosa che vide prima di perdere conoscenza.


L’aria era fredda e umida e puzzava di olio. Gli occhi di Tezzeret si spalancarono. Cavi simili a tentacoli erano avvolti attorno alle sue gambe e alle sue braccia, e lo tenevano fermo. Sulla sua testa incombeva un globo iridescente, con tenaglie di mercurio indurito che sporgevano dai lati come le zampe di un ragno meccanico.

Illustrazione di: Sarah Finnigan

“Procedura di stabilizzazione riuscita. Il soggetto sta riprendendo conoscenza.”

Jin-Gitaxias. Tezzeret si sforzò di assorbire il più possibile dell’ambiente che lo circondava. Riconobbe i dettagli del laboratorio scarsamente illuminato di Jin-Gitaxias, una panoplia di serbatoi di stasi in cui venivano conservati frammenti della storia del piano. Una tuta metallica abitualmente indossata dagli agenti Neurok. Un prisma a cinque facce e delle dimensioni di un pugno, con una tenue luce gialla che colava dal centro come un sole oscurato. I resti di un piccolo cubo nero che fluttuava in sospensione, dissezionato come se fosse un animale da studiare.

“Quanto tempo ho dormito?” chiese Tezzeret. La sua voce era roca, la gola secca.

“Abbastanza a lungo per prepararmi a eseguire il compito che mi era stato assegnato,” disse Jin-Gitaxias entrando nella sua visuale. Si fermò un momento per studiare un tablet che aveva in mano, un dispositivo con cui monitorava l’integrità degli apparati del suo laboratorio, poi ondeggiò il collo per guardare Tezzeret dritto negli occhi. “Imbarcarsi in un progetto con poco preavviso è da imprudenti. E in tempi così delicati. La discrezione di Elesh Norn è di diversi percentili inferiore a quella accettabile.”

E così stava succedendo. La sua ricompensa, finalmente! Tezzeret si sarebbe sentito più euforico se non fosse legato nel posto in cui Tamiyo era stata aperta e scorticata come un frutto troppo maturo, i suoi organi rimossi e sostituiti da ghiandole che galleggiavano in icore oleoso, un fegato acido, ossa di metallo nero. Dopo aver osservato la sua rinascita Phyrexiana, Tezzeret giurò che quel destino non sarebbe mai toccato a lui, che avrebbe preferito morire piuttosto che sottomettersi agli esperimenti folli di Jin-Gitaxias. Ma riflettere sulla morte non era la stessa cosa che affrontarla a viso aperto.

La porta nel lato opposto del laboratorio si aprì con un fruscio quasi impercettibile. Diversi rosicchiatori tentacolati si affrettarono all’interno trascinandosi dietro una piattaforma fluttuante, simile a quella che Tezzeret aveva usato per scortare il corpo smembrato di Karn nel giardino di Elesh Norn. L’unica differenza è che questa piattaforma trasportava qualcosa di fondamentale importanza per lui: il premio a lungo desiderato, con vene d’oro che turbinavano tutt’intorno alla sua superficie altrimenti nera come l’ebano.

Un corpo di darksteel. Freddo. Indistruttibile. Invincibile. Dal petto di Tezzeret iniziò a sgorgare qualcosa che superava persino il bruciore costante del Ponte Planare contro la sua carne. Era speranza? Niente affatto. Una tale illusione andava bene per gli esseri semplici; Tezzeret non sapeva che farsene. Ciò che provava era chiarezza. Non c’era niente come la disperazione per rinnovare le proprie convinzioni, per temprare la propria risolutezza.

Illustrazione di: Zezhou Chen

“Lavorare con il darksteel ha un prezzo,” spiegò Jin-Gitaxias nella sua caratteristica inflessione monotona. “Una volta che il metallo è stato forgiato, è fondamentale plasmarlo immediatamente nella configurazione desiderata. La rapidità con cui questo processo viene elaborato richiede inevitabilmente standard meno elevati in altre aree. Urabrask tollera un tale spreco, ma io no.”

“Ne sono ben consapevole,” disse Tezzeret, mentre dentro di sé rideva di Jin-Gitaxias fingendo di capire qualcosa che era chiaramente fuori dalla sua portata. Tezzeret aveva visto abbastanza nel dominio di Urabrask da sapere che il metallo non veniva estratto o plasmato in alcun modo anche lontanamente tradizionale. Forgiare il darksteel significava forgiare la realtà intorno al metallo, presagendola in modo che potesse essere modellato. Tezzeret ipotizzò che il meccanismo magico esatto fosse una collisione casuale di rituali assemblati in cicli interminabili, forse in parte influenzato dalle tecniche Vulshok e in parte dalla conoscenza ottenuta al di fuori del piano, tanto tempo fa. Nonostante la sua intuizione, tutti i suoi tentativi di replicarlo erano falliti. Tezzeret non sopportava la sua incapacità di svelare i segreti del darksteel. Ma aveva imparato ad accettarlo.

“Una lezione di efficienza,” disse Jin-Gitaxias, che con un cenno ordinò a un paio di droni di assistenza simili a lumache di avvicinarsi. “L’eterium estratto dal tuo involucro verrà plasmato e caricato per creare una forza vincolante in grado di stabilizzare la tua nuova forma.” I droni si protesero in avanti, e dalle aperture nella parte superiore della loro testa fuoriuscirono raggi concentrati di energia diretta al braccio metallico di Tezzeret.

All’inizio non avvertì nulla, ma presto la sensazione di calore che aumentava poco a poco fece posto a un bruciore ustionante nel punto in cui il suo braccio si congiungeva con la sua spalla organica. Tezzeret osservò l’incarnazione stessa della sua unicità sciogliersi in scorie. Jin-Gitaxias raccolse i resti in una ciotola e versò l’eterium surriscaldato in uno stretto canale intagliato sul retro del corpo di darksteel.

“Questa rimarrà una debolezza in una forma altrimenti inviolabile, ma con le giuste precauzioni è possibile mitigare il pericolo in cui potresti incorrere.”

Ingegnoso, pensò Tezzeret. Un artefice inferiore avrebbe provato a inventare un modo più complesso per creare il vincolo. Avrebbe impressionato un’accademia di colleghi leziosi. Non Jin-Gitaxias. Capiva che l’attrazione naturale degli elementi, del simile che si aggrappa al simile, era pura, inviolata e senza eguali.

“Ci siamo,” disse Jin-Gitaxias. “Avviare la procedura.”

Il globo operatore discese su Tezzeret, un anello di tenaglie che gli si chiuse intorno al collo. Poi il globo iniziò il suo lavoro, prima impiantando microfilamenti nella pelle, con ogni puntura che sembrava un colpo di pugnale. Gli aghi chirurgici incastonati nel suo sedile fecero lo stesso, tessendo una trama di fili di eterium intorno alla colonna vertebrale. Tezzeret piegò le dita, le strinse in un pugno. Un tonfo di energia paralizzante cominciò a scorrere attraverso i fili di metallo, provocandogli un improvviso capogiro.

Poi la testa e la spina dorsale furono separate dal suo corpo, ora poco più di una massa di carne sfregiata e metallo bruciato che circondava il Ponte Planare. Il dolore era di una grandezza superiore a qualsiasi altro avesse mai provato, tanto che la sua mente iniziò a essere invasa da visioni, frammenti di un familiare sogno febbrile che aveva vissuto quando Bolas lo salvò sull’orlo della morte. Un oceano ammantato di foschia cerulea. Un’isola di metallo, erbe di peltro brunito e foglie d’albero come lame di rasoio annerite dal tempo. Dolorosi accordi di contrabasso che si trasformano in un fragore assordante, come i rintocchi di un gigantesco orologio.

Poi. . .il buio. Il silenzio.

Tezzeret aprì gli occhi al bagliore delle luci in alto sulla lastra di marmo maculata. Aveva funzionato? Era vivo o morto? Non ne era sicuro. Si concentrò sulla punta del dito a contatto con la lastra e si meravigliò quando si mosse al suo comando. Sì, sentiva i muscoli, se così si potevano chiamare, dei suoi arti esplodere con una forza fisica grezza che non aveva mai conosciuto. Ancora più importante, il bruciore causato dal Ponte Planare era sparito e la sua mente era più acuta di quanto non fosse da mesi, come se un pezzo malato del suo corpo fosse stato asportato.

“Ti sei superato” disse Tezzeret.

“Negativo,” disse Jin-Gitaxias. “Un risultato simile rientrava ampiamente nelle mie capacità.”

“In ogni caso, la mia ammirazione per la tua abilità è sincera,” aggiunse Tezzeret. Sincera come il mio disprezzo per il tuo schifoso piano e tutto quello che contiene. A quel punto, decise di entrare nella Cieca Eternità, questa volta da uomo riforgiato. Stava già assaporando l’idea di ripagare con la stessa moneta tutti coloro che gli avevano fatto un torto, per poi accumulare potere e prendersi il posto che gli spettava nel pantheon del Multiverso.

Eppure... non si mosse. Non ci fu il caratteristico schiocco dei confini universali che si separavano, né la sensazione di momentanea nausea che in genere accompagnava il suo viaggio tra i piani. Tezzeret fletteva gli arti, ma i morsetti intorno ai polsi e alle caviglie erano fatti dello stesso infrangibile darksteel che ora componeva il suo corpo. Fu allora che notò un sottile intarsio di metallo argenteo gorgogliante: alimentava fessure poco profonde che si estendevano attraverso la lastra di marmo su cui giaceva. Imprecò, ricordando il modo in cui impedirono a Karn di salvarsi. Tezzeret era caduto nella stessa trappola.

“Liberami subito!” Tezzeret tentò ancora una volta di viaggiare tra i piani, e ancora una volta fallì. “Mi hai sentito?”

“Il darksteel ha un altro inconveniente,” disse Jin-Gitaxias, senza prestare attenzione agli strepiti di Tezzeret. “La conversione in blightsteel richiede settimane, se non mesi, di esposizione all’olio scintillante.” Con uno schiocco dei suoi artigli, il pretore richiamò il globo operatore, che si librava a mezz’aria vicino alla sua spalla. Lo toccò, e dal nido di appendici del globo emerse un tentacolo strisciante. “Per fortuna, sono stati fatti progressi per ridurre al minimo questo problema per quanto riguarda il compito in questione.” Il tentacolo si aprì, rivelando un piccolo modulo sulla punta.

Il Chip della Realtà, una nuova versione grondante di olio scintillante.

“Questo non faceva parte del mio accordo con la Madre!” urlò Tezzeret. “La sua ira ricadrà sulla tua testa!”

“Non si può violare un accordo già infranto.” Jin-Gitaxias gesticolò verso la parete più lontana, che si aprì rivelando un serbatoio di liquido blu. Al suo interno giaceva sospeso il corpo di uno dei luogotenenti di Urabrask, un caporottami, le braccia tese lontano dal corpo come un ragno che viene fatto a pezzi. Lui sapeva. Jin-Gitaxias sapeva tutto: Urabrask, i Mirran, gli attacchi imminenti. Ogni cosa. “Tali sviluppi non mi dispiacciono. Introducono possibilità abbastanza intriganti da lasciarle evolvere.”

La sua mossa per il trono, pensò Tezzeret.

“Tuttavia, mi pento di non aver nutrito le mie larve con i tuoi tessuti dopo il nostro primo incontro. Ma come possono essere corrette le sviste, così anche i traditori possono essere. . .qual è la nomenclatura di Elesh Norn? Ah. Perdonati.

Tezzeret tentò di nuovo di spezzare i suoi legami, lanciando magie in ogni direzione possibile. Ma ad ogni incantesimo, l’intarsio di metallo sulla lastra si illuminava, cambiando colore dall’argento a una brillante opalescenza, assorbendo l’energia di cui lui aveva bisogno per fuggire. Continuò a lanciare magie, alla disperata ricerca di qualsiasi cosa potesse penetrare nel campo di attenuazione.

Qualcosa lo fece. Planeswalker, udì una presenza parlare, una voce che ribolliva con la furia delle forge di Phyrexia, anche se quasi spenta per lo sfinimento. Come fai a raggiungere la mia mente?

Era passato così tanto tempo da quando Tezzeret aveva avviato un contatto con un telemin che aveva quasi dimenticato come fare. Più un trucco da mentalista di Esper che non un vero incantesimo, stabilire un legame mentale in questo modo permetteva all’incantatore di assumere il controllo totale di un altro individuo, a condizione che gli venisse concessa la totale autorizzazione. Inutile contro un nemico. Ma in una situazione come quella attuale, era esattamente l’arma improvvisata di cui aveva bisogno.

Concedimi il controllo, Phyrexiano, pensò Tezzeret. Io sono il tuo unico mezzo di salvezza e tu il mio. Altrimenti questa sarà la fine per entrambi. La resistenza iniziale da parte del caporottami, un riflesso naturale, lasciò rapidamente il posto alla psiche di Tezzeret che si fondeva nel suo nuovo ospite. Il Planeswalker poteva sentire la furia della creatura che si affievoliva, come le braci di una fornace, e la alimentò con la sua.

Vedendo Jin-Gitaxias in piedi sopra il suo corpo attraverso la parete trasparente della prigione del caporottami, Tezzeret diede un singolo colpo sul vetro con la mascella affilata della creatura. Lo colpì ancora e ancora, allargando ogni volta la crepa finché il serbatoio non esplose in una pioggia di schegge.

Illustrazione di: Billy Christian

Tezzeret spinse in avanti il caporottami, scaraventando Jin-Gitaxias a terra e facendogli cadere il Chip della Realtà di mano. In circostanze diverse, il passo successivo sarebbe stato quello di continuare a colpire Jin-Gitaxias senza pietà. Di spezzarlo. Invece, ordinò al caporottami di caricare oltre e portare tutto il peso del suo braccio rivestito di metallo sulla lastra di marmo, aprendovi un buco. Ancora e ancora. Maggiore era il danno alla lastra e al reticolo sulla sua superficie, più forte sarebbe diventato il legame di Tezzeret con la magia. Sollevò le braccia del caporottami sulla testa per un ultimo colpo quando il dolore gli attraversò la schiena, o meglio, la schiena del Phyrexiano. Guardò in basso, e vide l’artiglio di Jin-Gitaxias che sporgeva dal petto del caporottami.

La mente di Tezzeret tornò nel suo corpo in tempo per vedere Jin-Gitaxias gettare a terra il cadavere del caporottami, ora un mucchio senza vita davanti a lui. Nessuna parola uscì dalla bocca del pretore. Era finito il tempo delle riflessioni intellettuali; sia il pretore che il Planeswalker lo capirono. Uno si mosse e così fece l’altro: Jin-Gitaxias si lanciò in avanti armato con il Chip della Realtà.

Tezzeret viaggiò via tra i piani.


Sudiciume. Oscurità. Desolazione. Molte parole erano state spese per Mareacava, i bassifondi abbandonati dove l’élite di Esper aveva relegato la feccia che ricordava loro i propri peccati. Mareacava la crudele! Mareacava la spietata! Più tempo vi si trascorreva, più lunga e complessa diventava la formulazione. Mareacava, che impala i teschi dei dimenticati con spuntoni di perfezione meccanica! Mareacava, i cui pennacchi di fuliggine imbavagliano le speranze tossiche dei giovani, le suppliche acide dei vecchi! Mareacava con denti come schegge di vetro, ossa di sarcofago scavate nel midollo e imposte con la forza ai bambini!

Tezzeret, in ginocchio, scavò tra pezzi di pavimentazione rotta e raschiò lo sporco sottostante. Si ricoprì la faccia di fuliggine e terra, annusò il sangue, i malati, la disperazione. Poi si piegò all’indietro e scoppiò a ridere. I poeti potevano soffocare con i loro versi. Per Tezzeret, c’era solo una parola associata a Mareacava che avesse davvero significato.

Casa.

“Ehi!” sentì una voce esclamare alle sue spalle. Echeggiò sui muri degli edifici abbandonati disposti in fila lungo il sudicio vicolo. “Sembra che qualcuno se la sia spassata più del solito. Probabilmente non ti resta molto in tasca, ma prenderemo quello che hai!”

Tezzeret si voltò e vide una banda di marmocchi delle caverne, il più alto e maggiore d’età in prima fila, armato di coltello. Aveva l’aspetto inflessibile di qualcuno abituato a maneggiare un’arma, qualcuno che effettuava transazioni forzate con la stessa facilità con cui quelli su a Vectis sorseggiavano il tè pomeridiano. Molto tempo fa, prima dei draghi in grado di viaggiare tra i piani, delle convergenze capaci di stravolgere un piano e dei flagelli biomeccanici, Tezzeret indossava gli stessi stracci e aveva sul volto lo stesso sguardo torvo che ora questi ragazzi avevano sul loro.

“Sono in un momento di debolezza,” disse Tezzeret, con calma. “Vi lascerò andare via.”

“Grazie per l’offerta, ma penso che resteremo!” disse una ragazza, che Tezzeret immaginò essere la seconda in comando. “Cosa sono quelle cose che gli fluttuano intorno?”

Il capobanda sorrise. “Magia. Decorazioni per cui i ricchi spendono una fortuna.” Puntò il coltello in direzione di Tezzeret. “Coraggio. Dacci tutto quello che hai e non ti faremo del male.”

“Non ho niente per voi.”

“Sarò io a giudicare,” disse il capobanda.

“Tu vorresti giudicare me? Cosa ti fa pensare di esserne degno?”

“Ho un coltello in mano, vedi?”

“Sì,” disse Tezzeret. Poi, con un solo movimento, si voltò, si alzò e lanciò un incantesimo per animare il coltello nella mano dell’avversario. La lama si liberò dalla presa del ragazzo e poi si lanciò sul suo palmo, quasi tagliandogli di netto le dita. “Lo vedo.”

“Lich di etere!” urlò la ragazza, scatenando una fuga precipitosa, con il capobanda che si teneva il polso mentre scappava via. La banda si disperse, i ragazzi più grandi calpestarono quelli più piccoli che formavano le retrovie, lasciandosi dietro un bambino biondo e solo, spinto giù nel fango dai suoi compagni. Il ragazzo si rannicchiò contro un edificio lì vicino, che Tezzeret riconobbe. Aveva viaggiato fin sulla soglia della casa dove trascorse la sua infanzia, la condizione abissale in cui era nato.

“Perché questo edificio è sprangato?” chiese Tezzeret al ragazzo. “E che ne è stato dell’uomo che viveva qui?”

“Nessuno ha mai vissuto qui, per quanto ne so.”

Suo padre era forse morto? Non sarebbe stato sorprendente. Quando non malediceva gli altri attaccabrighe per “avergli rubato ciò che era suo di diritto” o quando non urlava contro suo figlio per dare sfogo alle sue frustrazioni, alzava il gomito e si rivolgeva balbettando al fantasma della defunta moglie, la madre di Tezzeret, prima di svenire in una pozza del suo stesso vomito. Un giovane Tezzeret, quando ancora non aveva imparato la lezione, avrebbe atteso che suo padre si addormentasse per ripulire il tavolo e adagiare il genitore sulla branda con la coperta tirata. Imbecille. Così non faceva altro che giustificare la crudeltà del padre nei suoi confronti. Solo quando era ormai più grande, e dopo aver appreso del potere dei maghi, Tezzeret capì il ruolo che lui stesso giocava nella sua sofferenza.

“Come ti chiami, ragazzo?”

“Estel,” balbettò il giovane.

“Vieni.”

Tezzeret cercò di riplasmare il braccio in un angolo piegato per staccare i pannelli di legno inchiodati sulla porta, ma il suo corpo ignorò il comando. Grugnì, rendendosi conto che per quanti punti di forza potesse avere la sua nuova forma, c’erano anche dei compromessi. Tempo al tempo, pensò mentre strappava i pannelli come se fossero pezzi di carta.

L’interno non sembrava molto diverso da come lo ricordava. Due ambienti, uno adibito a zona cucina con un caminetto basso e un tavolo, e l’altro usato come dormitorio. Entrambi erano stati saccheggiati di qualsiasi cosa di valore. Le uniche cose visibili che accennavano all’esistenza di suo padre erano frammenti di metallo contorto, tutte leghe scadenti, sparpagliati sul pavimento e un pesante mantello che puzzava di muffa e segatura.

E le cose invisibili? Tezzeret spinse di lato il tavolo e, contando tre piastrelle della parete di fondo, inserì un dito nella fessura tra la terza e la quarta. Sotto c’era una porticina di metallo chiusa con un pesante catenaccio.

Tezzeret strappò la porta dai cardini, allungò la mano e tirò fuori una piccola scatola di legno con motivi floreali incisi sul coperchio. Era opera di sua madre, l’ultimo residuo di un passatempo che le dava conforto in mezzo allo squallore. Ricordò di aver abbracciato la scatola durante il viaggio a Vectis Inferiore per recuperare il cadavere di sua madre, di come la sua unghia si inserisse perfettamente nelle scanalature poco profonde dell’intaglio. Ricordò la promessa di lei, quella mattina, di tornare con la cena... una promessa, immaginava Tezzeret, che aveva intenzione di mantenere.

I testimoni raccontarono una storia già sentita tante altre volte. Sua madre stava chiedendo l’elemosina quando il carro di un ricco capogilda la investì senza fermarsi. Naturalmente le autorità non mossero un dito. L’umiliazione e la morte erano eventi abbastanza comuni per gli emarginati come lei. Molto tempo dopo e forte del suo addestramento da Cercatore, Tezzeret cercò l’assassino di sua madre, solo per scoprire che era morto anni prima, in pace, circondato dall’amore della sua famiglia.

Mareacava, i cui artigli di stracci e miseria trascinano i sogni nella cenere!

“Sai che cos’è questo?” chiese Tezzeret a Estel dopo aver aperto la scatola per mostrarla al ragazzo. All’interno c’erano frammenti metallici di ogni forma: pepite, trucioli, fili irregolari.

“Eterium,” rispose Estel, accartocciandosi sotto lo sguardo del Planeswalker.

“Questa misera quantità vale più di tutti gli abitanti di Mareacava messi insieme, qualsiasi cosa tu sia ora o sarai in futuro.” Tezzeret iniziò a plasmare un incantesimo, mormorando parole che aveva imparato molto tempo prima quando era un Cercatore. “Il suo valore deriva dalla sua estrema rarità, e dall’impossibilità di essere riprodotto. Almeno, questo è ciò che ti viene detto.” Lasciò cadere la mano, l’eterium sospeso nell’aria, e osservò il metallo liquido riplasmarsi in un sottile quadrato. “A Mareacava non servono tanti motivi per lottare tra di noi per gli avanzi che ci è permesso avere. Tanto meglio per quelli di sopra. Ci tiene fuori dai loro piedi.” Sulla sua superficie iniziarono a sollevarsi delle lettere, mentre la mente di Tezzeret premeva il metallo per formulare un messaggio.

Poi il Planeswalker prese l’eterium, lo avvolse in un tubo stretto e lo rimise nella scatola. Guardò Estel, aveva intenzione di consegnarlo nelle mani del ragazzo quando un tuono squarciò l’aria, il rumore di porte d’acciaio che venivano divelte.

Tezzeret uscì fuori di soppiatto e vide una crepa angolare, divampante di luminosi crepitii di energia, che rompeva il soffitto della caverna. Ad attraversarla c’era una colonna di materiale bianco; in un primo momento, pensò fosse un edificio che cadeva dalla città soprastante. Ma a un esame più attento, individuò creature che si muovevano sulla superficie della colonna, che fuggivano verso il basso come insetti, fino al livello della strada. Poi capì cosa stava guardando.

Metallo bianco come ossa. I Phyrexiani erano arrivati.

“Troppo presto,” ringhiò Tezzeret. Afferrò il braccio di Estel e lo trascinò all’interno del tugurio. Costrinse il ragazzo a prendere la scatola, poi vide il piccolo pugnale che portava legato alla cintura. “Dammi il tuo coltello.”

Con mano tremante, Estel estrasse il coltello dal fodero. Tezzeret lo afferrò e lo esaminò. Materiale scadente. Manico allentato. Punta scheggiata. Tuttavia, sarebbe stato sufficiente per i fini di Tezzeret. Con un incantesimo da principianti solidificò il manico del coltello; con un altro levigò la lama finché non divenne affilata e affusolata. Con un ultimo incantesimo lo rese quasi etereo, in modo tale che il filo tagliente potesse fendere una spada ben forgiata.

“La cisterna di Punta dei Ruggiti,” disse, la conosci? C’è un passaggio che conduce a una casa dimenticata a Vectis Superiore.”

“Sì. Ci andiamo per guardare le sfilate.”

Come facevo io in gioventù. “Raggiungila... Segui la Via dell’Ombra, i passaggi ristretti.”

“Come sai...?”

“Stai zitto e ascolta. Devi lasciare la città, raccatta qualsiasi provvista in cui ti imbatti. Non smettere mai di muoverti. Se qualcosa ti ostacola, usa questo.” Tezzeret rimise nel fodero il coltello rifoggiato di Estel. “Vai a Bant.”

“Bant?”

“Segui la costa verso nord, mantieni il vento d’argento alle tue spalle per guidarti fino a Valeron. Avvicinati al primo avamposto che vedi e trova il cavaliere decorato con il maggior numero di sigilli. Richiedi un’udienza con il Cavaliere Generale Rafiq e dagli la scatola. Sono stato chiaro?”

Il ragazzo annuì, ma la sua espressione era preoccupata e confusa, esacerbata dalle grida e dai ruggiti disumani provenienti dall’esterno. “Cosa sta succedendo? Cos’erano quelle cose? Chi sei tu?”

“Sono colui che ti sta offrendo una possibilità di sopravvivere,” rispose. “Quando vedi Rafiq, digli che ti manda un alleato di Elspeth Tirel.”

Tezzeret spinse via Estel e il ragazzo si voltò per andarsene. Ma prima di uscire, si guardò indietro, annuì e disse: “Grazie.”

“Parole sprecate,” ringhiò Tezzeret, con il calore che gli cresceva dietro gli occhi.

“Ma signore...”

“Vai!” urlò, incalzando Estel a uscire di corsa dalla porta. Tezzeret si alzò, il corpo tremante. Non mi sono ripreso del tutto dall’innesto, disse tra sé e sé mentre si ricomponeva. Se il ragazzo muore, allora morirà. Sarebbe stato comunque quello il destino di Estel, se fosse rimasto a Mareacava. Ma se fosse riuscito a sopravvivere e ad avvisare i Cavalieri di Bant che solo loro possedevano un modo per difendersi, una legione di guerrieri angelici proprio come quelli che un tempo vantava Nuova Capenna, allora Alara sarebbe potuta diventare un pantano in grado di rallentare l’invasione dei Phyrexiani. Avrebbe guadagnato il tempo necessario per ristabilire i suoi contatti, ottenere risorse e mettere in atto i suoi piani.

Tezzeret indossò il mantello di suo padre, un travestimento umile, ma sufficiente; poi, per un brevissimo istante, fissò di nuovo lo squallido buco dove era nato e cresciuto. Pezzetti di legno marcio e intonaco piovvero dal soffitto mentre l’aria si riempiva dei suoni del massacro e del caos. Un addio appropriato, pensò mentre entrava nella Cieca Eternità.


I viaggi di Tezzeret lo portarono su un piano trasformato dopo l’altro, fatti a pezzi da orde di invasori Phyrexiani. Sciabole che cozzavano su corazze rivestite di ferro, mostruosi incisivi che macinavano ossa e pianti quasi costanti sembravano collegare i piani, fondendosi in un’ininterrotta sinfonia di sofferenza.

La “Grande Opera” di Elesh Norn si stava propagando più rapidamente di quanto Tezzeret avesse immaginato. Aranzhur. Ilcae. Obsidias. Tutti i piani in cui Baltrice, sua seconda in comando nel Consorzio Infinito, aveva allestito rifugi. La loro esistenza, e quella di Baltrice, del resto, era uno dei pochi brandelli di conoscenza specifica che Beleren si era lasciato alle spalle dopo aver raschiato la mente di Tezzeret nelle paludi dei nezumi. Ma non c’era più niente di sicuro in questi piani. Erano diventati semplici estensioni di Nuova Phyrexia, fiori freschi sul corrotto Albero del Mondo di Elesh Norn. Altri piani, Mirrankkar e Cabralin, stavano per essere incorporati. I loro abitanti avrebbero reagito, solo per cadere e diventare tutt’uno con la Legione delle Macchine.

Tezzeret non aveva altra scelta che continuare a muoversi. In un altro piano c’era un rifugio che poteva usare, anche se era un posto in cui esitava a tornare. Ma aveva esaurito le alternative. Con suo grande sollievo, non c’era alcun segno evidente di invasione nel trambusto crepuscolare delle stradine di Towashi. La tensione alimentata dalla recente aggressione dei Rivoltosi era sparita, e gli abitanti ripresero la loro penosa vita di tutti i giorni.

Ignari. Bestiame destinato alla macellazione.

Non aveva importanza. La preoccupazione di Tezzeret era trovare il rifugio, riposarsi e reclamare i materiali che Baltrice vi aveva nascosto. Sfortunatamente, gli strati serpeggianti della griglia che caratterizzavano la città sotterranea di Towashi si erano dimostrati una formidabile barriera per il suo desiderio di tregua, come se si trattasse dell’orda di Phyrexia.

“Dov’è?” mormorò, emergendo in strada dall’ennesimo vicolo. Tezzeret irrigidì il cappuccio del suo mantello e tenne il viso basso. La sorveglianza era ovunque. Per lungo tempo non era stato il benvenuto in gran parte di Kamigawa, e non aveva dubbi che i suoi nemici avessero ripreso a dargli la caccia dopo la sua ultima visita sul piano.

Continuò a camminare finché non si ritrovò nel Pozzo del Drago, una delle sezioni più basse della città sotterranea, un’area perennemente protetta dalla luce del sole da una matrice di ponti che servivano coloro che lavoravano e vivevano nei grattacieli di Towashi. Era una scelta logica per l’ubicazione del rifugio. Fuori da occhi indiscreti. Sepolto. Dimenticato da tutti tranne che dalle bande di motociclisti della città sotterranea che si guadagnano da vivere con la microcriminalità. Un posto che Tezzeret avrebbe scelto, forse un posto che aveva scelto ma non riusciva più a ricordare. Posò le mani sulla colonna di sostegno di un ponte e mormorò un incantesimo rabdomantico, e con la mente che sfrigolava attraverso il metallo vagò alla ricerca di una porta con l’impronta magica del Consorzio.

“Sei tu. . .” sentì qualcuno dire, una frazione di secondo prima di sentirsi sopraffatto da un’ondata di elettricità. All’improvviso Tezzeret si sentì inerme contro la gravità, e il peso del suo corpo lo fece cadere come una statua che veniva rovesciata. Dovette ricorrere a tutta la sua forza per allungare una mano all’indietro, dove sentì una lama che perforava la tela lisa del mantello di suo padre, penetrando nel soffice eterium al centro della sua schiena. Colpo fortunato... o sfortunato, a seconda dei casi. Una luce brillante esplose quindi dall’oscurità, illuminandolo dall’alto di un drone di sorveglianza fluttuante, con il cannone ancora fumante per un colpo sparato di recente. Dal perimetro uscì un nezumi, giovane per la sua statura, con una pelliccia bianca maculata di grigio, a differenza della maggior parte dei suoi fratelli.

“Lei dov’è?”

Tezzeret gemette e tentò di viaggiare tra i piani. Ma la sua mente era troppo confusa per scappare o lanciare incantesimi. Allungò di nuovo la mano all’indietro, questa volta toccando l’asta della lama con la punta delle dita.

“Tamiyo,” continuò il nezumi. “Dimmi dove si trova.” Sollevò un’asta di controllo, con cui comandò al drone di abbassarsi. “È. . .morta?” Con uno clic, la camera del cannone si caricò con un altro colpo puntato sulla testa di Tezzeret. “Parla!”

Illustrazione di: Simon Dominic

“Cos’è lei per te, cucciolo di ratto?” disse Tezzeret, con un secco grugnito. “Sei il suo campione? L’eroe che si precipiterà a salvarla dall’oscurità?”

“Mia madre.” Madre. Ma certo. La “famiglia” di Tamiyo, non smetteva mai di parlarne. Mai un momento di quiete, con lei in giro: il suo canto insensato, un carillon rotto bloccato in un ciclo infinito. Genku, amore mio, tornerò per te. Hiroku, amore mio, ci rivedremo presto. Rumiyo, amore mio, ci abbracceremo ancora. Nashi, amore mio, non del mio sangue, ma del mio cuore. . .Sì, Nashi. Questo era il suo nome. “Ti ho visto morire una volta per aver raso al suolo il mio villaggio,” disse, con il braccio che tremava, le dita posizionate sui pulsanti dell’asta di controllo. “Dimmi dov’è, o morirai di nuovo.”

Il cerchio si chiudeva. Tezzeret alzò lo sguardo e fissò negli occhi il ragazzo. “Allora fallo.”

La mano di Nashi tremò. “Giuro che. . .

“Fallo! Cosa stai aspettando, codardo?” Una piastra si ruppe all’interno di Tezzeret. Allungò la mano all’indietro ancora una volta, sentendo le sue dita distendersi e avvolgersi attorno alla lama conficcata nella sua schiena. La strappò via e la scagliò contro il drone di Nashi, mandandolo di traverso quel tanto che bastava per fargli mancare il bersaglio quando sparò con il cannone. Le ombre danzarono. Nashi cercò di scappare, ma Tezzeret fu più veloce; lo afferrò per il bavero della giacca di pelle e lo trascinò a terra. “Patetico smidollato!” Tezzeret, ritrovato il controllo delle proprie facoltà, sollevò Nashi con un braccio e lo scaraventò contro il sostegno del ponte. “Il destino ti ha offerto la vendetta e tu hai rovinato tutto! A pochi viene concessa una possibilità del genere!” Tezzeret sollevò di nuovo Nashi e lo inchiodò al muro. Il ragazzo era malconcio, macchie rosse affondavano nella pelliccia come sangue sulla neve. “In questa vita, devi prenderti ciò che meriti! Gli altri cercheranno di fermarti, quindi devi fermarli prima tu! Devi ucciderli prima che loro uccidano te!”

Un rombo di motori esplose tutt’intorno a Tezzeret. Si voltò proprio mentre la luce inondava l’area da più di una dozzina di motociclette che formavano un semicerchio intorno a lui. Nessuna via d’uscita.

“Lascialo andare,” ordinò la capobanda, una nezumi in cima a una moto disegnata come un drago.

“Questa storia non vi riguarda.”

“Sì, invece... Lui è uno dei nostri,” rispose la ragazza. “Sei in inferiorità. Lascialo andare, o te ne pentirai.

Tezzeret lasciò cadere Nashi davanti ai suoi piedi. Altre minacce. Sempre minacce in attesa di una sua risposta. Molto bene. Il metallo sarebbe stata la sua risposta, brutale e precisa. Per amor dell’odio. Con quel pensiero, espanse la sua magia oltre se stesso in tutte le direzioni: nei ponti che attraversavano il firmamento di ferro sopra la sua testa, nel terreno per contattare i depositi di minerale in profondità sotto di loro. Forse intuendo che qualcosa non andava, la capobanda ordinò a tre dei suoi scagnozzi di smontare dalle loro motociclette e avvicinarsi.

Troppo tardi. Tezzeret si contrasse, facendo muovere le corte lame nelle mani degli scagnozzi di propria iniziativa, infilzando i loro possessori e trascinandoli lontano dalla luce. Il resto dei Nezumi montò di nuovo sulle moto e accese i motori per prepararsi alla carica. Un altro inutile tentativo. Ciascuno dei loro destrieri meccanici era un’opera magnifica, un artefatto in tutto e per tutto, luccicante e potente e... metallico. Alzando la mano davanti al viso, con il palmo rivolto verso l’alto, Tezzeret strinse lentamente le dita.

I teppisti compresero solo pochi secondi dopo, quando le loro moto iniziarono a tremare. Alcuni cercarono di saltare giù, solo per scoprire che il metallo che avevano addosso, armi, fibbie e spille sugli abiti, si era fuso con le loro motociclette, incatenandoli. Non poterono fare nulla quando, di colpo, Tezzeret strinse le dita in un pugno stretto, sollevando le moto in aria e poi scaraventandole una contro l’altra in un raccapricciante scrocchio. Fissò la massa di metallo e carne, usò la magia per ruotarla alla scarsa luce del drone abbattuto di Nashi. Grida di indicibile dolore. Arti fratturati infilzati da aste cromate che brillavano nell’oscurità come un gioiello.

Un falso gioiello. Una maledizione mascherata da tesoro. No, il vero potere non era nessuna di queste due cose, accumulare eserciti o raccogliere armi. Era salvarsi, prosperare, vivere più a lungo di tutti coloro che lo braccavano. Con un briciolo della sua volontà, Tezzeret lanciò via nell’oscurità la massa di corpi e metallo frantumato, che andò infine a sbattere contro un muro lontano.

Poi tutto tacque. Abbassò lo sguardo dove giaceva Nashi, si accovacciò e strinse con delicatezza la testa del ragazzo tra le mani. Nashi avvolse le dita intorno al polso di Tezzeret, il sangue mezzo rappreso sui suoi palmi lasciarono un residuo nero e viscoso sulla pelle di darksteel di Tezzeret.

“Tua madre è ancora viva.”

“Viva,” ansimò Nashi, mentre un piccolissimo frammento di sorriso gli balenò sul viso.

Tezzeret annuì. “Presto tornerà da te.” Si piegò in avanti per avvicinarsi di più. “E quando lo farà, rimpiangerai che io non l’abbia uccisa.” Delicatamente, appoggiò la testa di Nashi a terra, si alzò e si allontanò.


Il rifugio si trovava dietro una falsa parete in una sala da gioco, luminosa e chiassosa, dove la gente degli strati inferiori della società di Kamigawa affidava i propri soldi a macchine che promettevano ricchezze ma producevano poco più che luci lampeggianti e suoni sferraglianti. Tezzeret non si sorprese. Baltrice aveva sempre avuto un debole per queste frivolezze.

All’interno, trovò esattamente quello che stava cercando. Un posto appartato dove riposare. Mettere a punto una strategia. Rimuginare. Anche i rifornimenti erano molto graditi: una nuova armatura leggera, la cui colonna vertebrale e la zona del collo erano state rinforzate magicamente; denaro in valute di molti piani diversi; una lama di mana, una delle pochissime non in possesso della Chiesa dell’Anima Incarnata; e infine un piccolo cristallo che, tenuto in mano, proiettava sulla parete uno schema di luci puntiformi, una telemetria esoterica che riaccendeva un ricordo a lungo spento.

Tezzeret viaggiò da Kamigawa su un piano così desolato che nemmeno lui ne conosceva il nome. Il viaggio, la flessione di un muscolo trascurato che conservava ancora la memoria di allenamenti infiniti, lo portò in mezzo a un oceano di sabbia. In lontananza si ergeva una collina non molto alta fatta di metallo impenetrabile, e dalla sua sommità si vedeva un’unica torre appuntita. Una volta, questa era la sua torre, la base delle operazioni da cui manovrava le fortune di altri piani nei panni dell’oscuro capo del Consorzio Infinito.

“Furbo, Beleren, a tenermelo nascosto,” rifletté Tezzeret. “Ma ora non più.”

Mentre iniziò il suo cammino, Tezzeret rifletté sulla battaglia in corso sugli altri piani: Beleren e la sua schiera contro Elesh Norn. Sarebbero presto arrivati alla fine, la fase in cui entrambi gli avversari avrebbero scatenato le loro risorse finali l’uno contro l’altro. Questa era sempre la parte più importante della partita, e per una volta era felice di rinunciarvi. Alla fine, una delle due fazioni sarebbe uscita vittoriosa ma indebolita. Allora, e solo allora, avrebbe fatto la sua mossa.

Nel frattempo, c’era molto da ricostruire.