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Un piccolo granchio passò sulla mano di Teferi.

Le onde... Cos’è che aveva detto?

“Credo che il nostro tempo sia scaduto,” disse Urza, indicando un punto vuoto sopra la testa di Teferi. “Riesco a vedere qualcosa là fuori.”

Il Distruttore di Dominaria che conferisce con il Distruttore di Zhalfir... Sempre all’ombra di quel caprone, vecchio. Chissà cos’ha visto là fuori.

Alzati. Allontanati dalla spiaggia. Dimentica. Batti le palpebre, ed è tutto finito! Questa dev’essere la seconda volta che muori, ma in ogni caso, ora sei tornato... Cos’hai intenzione di fare?

C’è una guerra all’orizzonte. Cos’hai intenzione di fare?

Illustrazione di: Chase Stone

Nudo, solo, Teferi si avviò verso l’entroterra dalla spiaggia.

La giornata era mite e calda. Il sole splendeva attraverso un basso banco di nuvole o nebbia all’orizzonte: nebuloso, dorato, diffuso. Il ricordo di un sole, il modo in cui Teferi vedeva la luce nei suoi sogni.

Teferi si fermò dove la sabbia lasciava il posto a una dura erba costiera e ai margini di una foresta di dune. Il vento era costante fuori dall’acqua. Minuscoli granelli di sabbia gli sfioravano le caviglie. C’era un arco di pietra qui, pietra rossa proveniente da qualche altra parte, inaridita da granelli di sabbia trascinati quotidianamente su di essa da un tempo incalcolabile. Le depressioni regolari sulla superficie dell’arco un tempo potevano essere parole, lingua, segni che avrebbero potuto dirgli dove si trovava, ma ora erano troppo consumate per svelare qualcosa. Ancora più oltre si estendeva un sentiero battuto, contrassegnato da colonne erette e dai resti di altre che erano crollate.

Teferi si appoggiò all’arco di pietra e riprese fiato. Il dolore si riversò dove fino a pochi istanti prima non c’era stato altro che la piacevolezza del nulla. Respirare era doloroso. Si sentiva i polmoni tesi, in affanno, come se avesse appena finito di correre per chilometri. Il suo corpo doleva. Si sentiva spremuto dal centro alle estremità, come uno straccio bagnato che viene attorcigliato per strizzare via l’acqua.

Cosa sapeva? I pensieri di Teferi si rincorrevano mentre cercava di fare mente locale.

Non sei più connesso a Kaya. Sei intero, non più uno spirito, il che significa che è successo qualcosa dall’altra parte che ti ha fatto finire così dalla tua parte. Non era pianificato, non era previsto: non una bella notizia. Prova a tornare indietro.

Teferi si allungò verso l’esterno, poi verso l’interno, evocò il movimento familiare di un viaggio tra i piani e non trovò nulla. Una contrazione molle, lo spasmo di un arto intorpidito. Si accovacciò, si voltò e si sedette. Un’ondata di panico, nausea. Appoggiò la testa contro l’arco e fissò il mare, strizzando gli occhi per vedere attraverso la luce del giorno e l’acqua scintillante.

Una foschia era avvinghiata all’orizzonte. Le onde erano dolci, si sgretolavano invece di infrangersi, rotolavano sulla spiaggia dove uccelli acquatici e granchi si esibivano in una danza tra cacciatori e prede. Distante, Teferi pensò. Bellezza, come nient’altro.

Osservò la luce sull’oceano. Allungò la mano verso un sole immaginario e desiderò che si tuffasse al di sotto dell’orizzonte nascosto, affinché il giorno scivolasse senza sforzo nella notte. Il tempo non accolse la sua richiesta. La mano gli ricadde in grembo.

“È finita,” disse Teferi ad alta voce, parlando al vento, agli uccelli e ai granchi. “Hanno vinto.”


Cadde la notte. Teferi si addormentò. I richiami delle cicale erano taglienti come seghe circolari, incubi. Sognò cose che non avrebbe ricordato ma che avrebbe portato con sé al momento del risveglio:

Kroog. Un campo di fango solcato da trincee, un volto segnato dalla malattia che sbircia maliziosamente dalla storia più oscura di Dominaria, labbra di cratere bagnate di morti freschi e in putrefazione e rianimati, fili che scorrono sotto la sua pelle. Argoth, ardente, striata d’olio, elfi e umani schiacciati sotto i piedi di bestie di metallo, le cui seghe circolari gli facevano tremare i denti, che non erano altro che le cicale al di fuori del suo sogno.

Cose che ricorderà al risveglio:

la pressione fredda quando il Phyrexiano lo pugnalò. Le oscure sale della Torre di Urza sotto assedio gli ricordavano le sale di Tolaria di tanti anni prima, illuminate dal fuoco, echeggianti di agonie.

Quel che faceva male di più:

Subira non vaga più; adesso è lui a farlo. Ci vediamo lungo il cammino uno di questi giorni, Subi!


Dal mare arrivò una nebbia fredda, che fece venire la pelle d’oca a Teferi. Si svegliò e vide che la marea era salita, e dove le onde prima si sgretolavano, ora si infrangevano, di un blu-argento scuro striato dai raggi della luna.

Si alzò in piedi. Non c’erano lune. Ciononostante, una pallida luce azzurra illuminava i contorni netti del paesaggio. Strano, ma doveva muoversi. Dirigersi da qualche parte nell’entroterra, dov’era più caldo. Seguire le tracce. Dove c’era gente c’era speranza: la gente deve mangiare, deve dormire, deve ridere. Deve anche avere dei vestiti di ricambio, pensò, mentre cercava di scrollarsi il freddo di dosso. Si strofinò le braccia per riscaldarsi e seguì il sentiero verso l’interno. La foresta di dune lo proteggeva dal vento più forte, e più camminava, più la notte si faceva calda, più l’aria si calmava. L’odore pungente di legno in decomposizione, di paludi salmastre, di vita e di morte.

Teferi emerse dalla foresta di dune in una boscaglia dominata da alberi bassi e dall’ampia chioma. Gli insetti e il vento riempivano la notte, un suono così ronzante che avrebbe anche potuto essere silenzio. Alla luce nebbiosa, non lunare, poteva scorgere il paesaggio che si perdeva in lontananza, i tratti scuri che spezzavano l’orizzonte in un confine grumoso: montagne, basse e antiche, a molti chilometri di distanza.

Il percorso proseguiva qui, più definito. La sabbia candida brillava come un faro al chiaro di luna, un nastro che si estendeva per una decina di metri nel terreno erboso prima di lasciare il posto a un sentiero di terra battuta, solcato da leggere tracce di carri, venature secche ulteriormente erose dalla pioggia.

Teferi si accovacciò e allungò un braccio verso la sabbia. Passò una mano su una vecchia impronta e, con un gesto lento e avvolgente, penetrò il tempo, estraendo la storia dalla polvere.

Le persone passavano di qua, una volta. La spiaggia al di là della foresta di dune era un luogo felice, dove le famiglie trascorrevano lunghi pomeriggi rilassandosi vicino alla dolce risacca. I bambini correvano urlando di gioia lungo questo sentiero, saltando mentre passavano sotto l’arco rosso, con la speranza di diventare un giorno abbastanza alti da arrivare a colpire il vertice della chiave di volta. Seguivano poi i genitori, trainando carretti a mano o sacchi di morbida maglia pieni delle provviste del giorno: cibi secchi e freddi, acqua, coperte, racconti scritti, ceste nel caso avessero trovato frutti di mare o pesciolini, monete per contrattare con i venditori che pattugliavano la riva.

Teferi chiuse gli occhi. Con l’altra mano tracciò un cerchio più grande. Cercava di allargare la rete, tornare ai frangenti e al bordo dell’acqua. Le visioni gli arrivavano come ricordi, come sogni.

Barche da pesca lunghe, panciute e dipinte con colori vivaci un tempo fiancheggiavano la spiaggia. Nel pomeriggio, la maggior parte dei marinai sarebbe tornata con la pesca del giorno e si sarebbe diretta verso i mercati più all’interno. Alcuni oziavano sulla spiaggia con le loro amanti e gli amici, altri rimanevano indietro per rimuovere i cirripedi dagli scafi curvi o dipingere con colori freschi le loro imbarcazioni. Enormi reti svolazzavano dalle torri di essiccazione. Alcuni dei lavoratori e dei marinai dormivano qui durante la loro lunga giornata libera, all’ombra delle loro barche a pancia in su, sotto la pioggia leggera e l’inebriante odore dell’oceano che emanavano le loro reti lasciate ad asciugare.

Un’altra rotazione per avvicinare il passato.

Meno famiglie passavano di qui. Quelle che lo facevano camminavano insieme, gli uni vicini agli altri, e alcuni dei genitori avevano vecchie armi: pugnali, bastoni di legno duro ricoperti di ferro. Le barche non avevano cirripedi attaccati sul fondo dello scafo e la vernice era sbiadita dal sole. Era trascorso un po’ di tempo dall’ultima volta che qualche pescatore le aveva portate in mare; gli scafi più vecchi cominciavano ad avere crepe. Le reti, stese ad asciugare, erano sbiancate, irrigidite, diventate fragili. I marinai non portavano più fuori le reti perché non ne avevano bisogno. La loro paura era la stessa che provavano i genitori, ed era la paura di Teferi, quella che gli si contorceva alla base del cranio, una voce interiore che sussurrava: devi temere il mare. Temere la notte. Temere ciò che non puoi vedere.

Un’altra rotazione. Più vicino.

Paura. Il ronzio degli insetti nel presente si fondeva con lo schianto delle onde di allora e le terribili urla trascinate dalla burrasca marina. Cataclisma. Il terreno tremò sotto i passi di una fuga precipitosa. Il terreno si sollevò, ondeggiando, muovendosi.

Un’altra.

Vuoto. La pioggia si mischiava alle onde che si infrangevano contro i fianchi delle dune.

Un’altra.

La spiaggia era tornata. L’acqua era immobile come vetro. Un vento dolce scompigliava l’erba delle dune e poi si spegneva.

Un’altra.

All’estremità opposta del sentiero, al limite del punto in cui il richiamo di Teferi fallì e l’oscurità diventò assoluta, un dito di nebbia si faceva avanti. Si arricciò, poi sbiadì, strappato da un vento impercettibile.

Il sentiero aveva un suo battito, un tempo: i passi di chi era diretto al mare e di chi tornava a casa. Wrenn l’avrebbe definita una canzone, pensò Teferi. Si alzò e spezzò il suo incantesimo. La puzza della cronomanzia svanì. Teferi si guardò alle spalle. Anche il sentiero era un corpo. Un cadavere che conosceva, proteso verso un orizzonte lontano, oltre il quale non c’era nulla. Un vuoto, empireo, reciso dal tempo e da tutto il resto.

Zhalfir. Quasi quattrocento anni dopo, era tornato a Zhalfir.


Zhalfir

Chilometri nell’entroterra, Teferi seguiva un semplice sentiero che si univa a un’ampia strada di ciottoli, da orizzonte a orizzonte, parallela alla costa. Senza la brezza marina, la notte si aggrappava al calore del giorno. L’erba alta fiancheggiava la strada e i richiami degli insetti soffocavano i pensieri.

Teferi, senza un orientamento preciso, girò a sinistra e iniziò a camminare.

Ore dopo, all’avvicinarsi dell’alba, lo sferragliare di carri e zoccoli lo svegliò. Teferi si era sistemato appena fuori dalla strada per dormire; ora non poteva. Dolorante, si avvicinò, e al riparo della fitta boscaglia osservò una carovana che gli passava accanto.

Era un lungo corteo di dieci carri trainati ciascuno da docili bestie, buoi o bufali. I caravanieri cavalcavano in cima ai carri su panche ombreggiate e indossavano abiti leggeri a strati, mantelli nelle tonalità terrose del verde e del rosso. Il loro contegno era calmo, anche se stanco: molti tenevano in mano tazze fumanti di caffè o qualche altra bevanda calda. Teferi immaginò che fossero quelli del turno di giorno, essendosi alzati da non più di un’ora per prendere il posto dei loro compagni che ora dormivano negli alti carri ricoperti di tela, tra le scatole e i sacchi di merci che trasportavano. Attese, osservando i carri di testa che passavano, prendendo le misure alle guardie corazzate che cavalcavano nella retroguardia, alcune che dormivano sedute, legate alle travi di sostegno del loro carro in modo da non cadere. Queste guardie non erano gli akinci che Teferi ricordava: la loro armatura non era uniforme, le armi erano di semplice ferro e indossavano mantelli stinti. È probabile che fossero mercenari in viaggio assunti a buon mercato dai carovanieri.

Lo stomaco di Teferi brontolò. Il Planeswalker si accorse che stava tremando. Affamato, assetato, stanco, smarrito... era solo. Aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di rischiare di fidarsi.

Teferi lasciò passare un altro carro e poi uscì sulla strada.

“Salve,” disse alla carovaniera che si avvicinava. Alzò una mano e fece un cenno.

La carovaniera in avvicinamento urlò, svegliando di soprassalto il suo copilota. Questi saltò, agitando le braccia, urtando e lanciando in aria il caffè della compagna. I buoi che trainavano il carro rimasero impassibili, felici di fermarsi. Il toro di testa sbuffò, girò la testa per guardare Teferi e sbatté le palpebre.

Il trambusto fermò la carovana. Grida di “alt!” e “attacco!” risuonarono su e giù per il corteo di carri, e con una grande cacofonia le guardie si riversarono fuori dai loro posti, alcune aggrovigliandosi nelle loro file addormentate, la maggior parte muovendosi con una velocità sufficiente da circondare Teferi e puntargli addosso le lance nel giro di un minuto.

“Chi sei, uomo nudo?” gridò una delle guardie. Era una donna dalla voce rauca, più o meno dell’età di Teferi, con un’armatura usata ma ben tenuta. Un collo di pelliccia sopra un mantello blu reale rattoppato la indicava come appartenente un tempo a una brigata. Per questo era probabilmente la leader di questo gruppo. Come il resto delle sue guardie, teneva la lancia puntata al petto di Teferi.

“Un viaggiatore,” rispose Teferi. “Sono stato attaccato dai banditi,” mentì. “Due giorni fa, vicino alla costa. Mi hanno preso vestiti e cibo e mi hanno lasciato per morto. Per favore, se avete qualcosa da darmi...”

La leader delle guardie si rilassò. “Banditi,” disse, facendo cenno ai suoi compagni di rompere le righe. “Qualcuno gli trovi un mantello. Vicino alla costa? Allora non preoccuparti, viaggiatore... Non ti daranno più fastidio. Ci siamo occupati di quel branco di traditori proprio ieri sera.”

“Davvero?” chiese Teferi, nascondendo bene la sua sorpresa. Una delle guardie gli passò un mantello di ricambio. Teferi lo indossò, prendendosi un momento per guardare oltre le guardie. Molti indossavano bende attorno agli arti, ai fianchi e alla testa. Era stata una dura lotta.

“Diventano sempre più audaci,” disse con una smorfia la leader delle guardie. “Le persone non possono vivere circondate da minacce costanti... Provano rabbia. Hanno fame. Nessuno stomaco per il sacrificio.”

“Sono tempi duri,” concordò Teferi. Nessuno stomaco per il sacrificio? Quanto tempo era passato davvero per loro, si chiese: momenti o anni?

La leader abbassò lo sguardo, ferma, scegliendo bene le sue prossime parole. “Non abbiamo trovato nessuno del tuo gruppo in vita,” disse. Dritta al punto, senza giri di parole. “I loro corpi sono nell’ultimo carro: li riportiamo a Kiingal. Puoi venire con noi e parlare per loro.” La leader delle guardie fece un cenno con la testa. Presa la decisione, fece un fischio breve e acuto: si tornava al lavoro. Quando la carovana si rimise in marcia, iniziò a camminare e fece cenno a Teferi di seguirla.

Teferi si mise in fila, tenendo chiuso il mantello. Era ormai spuntata l’alba e il caldo del giorno aumentava con il sole.

“Hai un’aria familiare,” disse la leader delle guardie. “Io sono Eshe. Da dove vieni? Come ti chiami?”

“Sefu,” mentì di nuovo Teferi. “Vengo da Kipamu. Ho una di quelle facce comuni,” continuò Teferi sorridendo. “Mi rende un buon mercante: tutti si fidano di un amico.”

“Senza dubbio.”

Eshe e Teferi camminavano in silenzio, mantenendo un’andatura regolare e rilassata accanto ai grandi carri in movimento.

“Non hai chiesto nulla a proposito dei morti.”

“I morti?”

“I tuoi compagni,” disse Eshe. “Quanti erano, a proposito?”

Maledizione. Teferi non poteva voltarsi a controllare, il carro era troppo indietro. Invece, lavorando velocemente, canalizzò un ingegnoso incantesimo e trasse la risposta dalla memoria di Eshe. Non era mai stato il migliore a profetizzare. Tra la vecchia guardia dei Guardiani, la lettura della mente era di competenza di Jace. Aprire il regno del subconscio come si fa con un’enciclopedia: Teferi si sentiva a disagio a immergersi in quel luogo privato, rischiare di strappare il filo sbagliato e svelare il complesso enigma che era la mente umana. E poi lo trovava sbagliato, un’invasione... ma ne aveva bisogno, era disperato e il tempo era contro tutti loro.

Un leggero ronzio nell’orecchio. L’odore acre dell’erba bruciata. Un singolo grido, interrotto da una lancia a lama di foglia.

“Dieci,” disse Teferi, mentre il ricordo svaniva.

“Dieci morti?” Eshe scosse la testa. “Una tragedia. Ma non preoccuparti,” disse. “Ci prenderemo cura di te.”


La carovana si fermò la mattina successiva, a un giorno da Kiingal.

“Tutti in fila, in fila,” gridarono le guardie, esortando i carovanieri a schierarsi al lato della strada. “Presto, potrebbero esserci dei banditi,” continuarono, ammonendo i mercanti dagli occhi annebbiati.

Teferi si schierò con i carovanieri, ondeggiando un po’ mentre cercava di stare sull’attenti come richiedevano le guardie. Era stata una notte di sonno agitato, anche dopo che i suoi incubi erano passati. Sbadigliò, contagiato dalla carovaniera al suo fianco, che tremava per la forza del proprio sbadiglio.

“È una mattina normale?” chiese Teferi alla carovaniera.

“No”, disse lei. Tremava, non per il freddo, poiché era una mattina calda, ma per la paura. “Non fidarti di questi banditi,” disse sussurrando, parlando velocemente. “Hanno ucciso le nostre guardie e ne hanno preso il posto, hanno intenzione di vendere i nostri beni a...”

“Silenzio,” sibilò Eshe. La carovaniera sussultò, sorpresa. Eshe volse lo sguardo nella loro direzione.

Teferi incrociò gli occhi di Eshe e in quel momento capì. Lei lo guardò con odio puro, con l’aria di averlo riconosciuto. Sapeva chi era.

“Torna in linea, Sefu,” disse Eshe a Teferi. “Non un’altra mossa.”

Teferi annuì e si mise in fila. Quello che sarebbe accaduto dopo non era ancora scritto; poteva esserci una via d’uscita che non fosse solo una collisione. Rimase in silenzio e attese.

Le guardie erano in piedi di fronte ai carovanieri, in inferiorità numerica ma armate e corazzate, in attesa che Eshe finisse il suo lento esame dei prigionieri. Camminava con rigida precisione.

“Ascoltate,” disse Eshe, quando fu al termine della linea. La sua voce era carica della solitudine di quel tratto di strada, elevandosi al di sopra del ronzio mattutino degli insetti, chiara e luminosa. “Avete dimostrato pazienza nei nostri confronti. Siete stati gentili con noi nonostante il modo in cui vi abbiamo trattato. Ora chiedo un altro atto di carità: tra di voi c’è una serpe.”

I carovanieri si scambiarono occhiate preoccupate.

“Zhalfir è in guerra,” continuò Eshe. Si voltò e iniziò, lentamente, a ripercorrere la fila dei carovanieri riuniti. “Siamo in guerra da generazioni. Prima la Guerra dei Miraggi, poi la Guerra di Keld e ora questa lunga attesa. In preparazione alla Guerra di Phyrexia, la difesa di Dominaria contro le orde di Yawgmoth. I nostri campi, le nostre città, le nostre terre, la nostra gente... piegati alla guerra, da generazioni.” Eshe si fermò accanto a una carovaniera. Senza guardarla, la indicò. “Tu”, disse. “Quanti cari hai perso nella tua famiglia?”

“Tre durante la Guerra dei Miraggi,” disse la carovaniera, balbettando le parole a causa della gola secca per la paura. “Mia madre, mia nonna e mio nonno.”

“E tu?” Eshe indicò la carovaniera successiva.

“Due, quando i soldati di Keld attaccarono,” disse. “Mio marito e mio fratello.”

“Tu?”

“Mio fratello, mia sorella ed entrambe le mie figlie per mano delle armate di Kaervek nella Guerra dei Miraggi. E io ho subito delle ferite a Tefemburu.”

Illustrazione di: Daarken

Eshe annuì. Si avvicinò all’ultimo caravaniere, sopraffatta per un momento. Appoggiando la fronte contro la sua, gli sussurrò qualcosa in privato, con calma. Poi gli baciò la fronte e si allontanò. Guardò i suoi compagni banditi, li indicò e poi indicò di nuovo i carovanieri.

“Ognuno di noi qui è accomunato dal dolore,” riprese Eshe. “Siamo fratelli e sorelle nella perdita, nella fame e nella paura.”

Teferi guardò la terra rossa sotto i suoi piedi nudi. Niente lacrime. Non toccava a lui piangerle.

“Zhalfir da solo, noi da soli, abbiamo fermato ogni lama puntata contro di noi.” La voce di Eshe tremava per l’emozione. “Non importa quanti morti, non importa quanto temibile fosse il nemico.”

Silenzio. Eshe batté la base della sua lancia contro la terra battuta della strada, in un ritmo inteso a calmare, a rinsaldare i cuori inquieti. Fece i pochi passi necessari per raggiungere Teferi.

“Da soli,” disse Eshe. Tutti gli altri suoni sembravano essere fuggiti dalla calda mattinata. “Uno di noi qui non ha sofferto quel dolore. È sgusciato via. Ma ora ha fatto ritorno,” disse. Eshe alzò un braccio e indicò Teferi. “Ecco a voi Teferi, la serpe.”

Sia i carovanieri che le guardie scoppiarono in un trambusto, urlando e ansimando alla rivelazione. L’ordine fu dimenticato mentre i carovanieri si allontanarono da Teferi e le guardie si avvicinarono, estraendo le armi. Anche alcuni dei carovanieri si avvicinarono a lui, stringendo i pugni. Teferi non oppose resistenza quando lo afferrarono, ma alzò semplicemente le mani.

“Eshe, per favore.”

“No,” disse Eshe. Sollevò la lancia, raccolse la forza e spinse verso il cuore di Teferi.

“Stop,” disse il Planeswalker, e il tempo obbedì.

Sospirò. Con cautela, si districò dai carovanieri bloccati nel tempo che lo trattenevano, poi si accovacciò, esausto. Si sedette.

“Non ho dormito bene la notte scorsa,” mormorò Teferi. “Eshe, riesci a sentirmi?” chiese. Alzò lo sguardo su Eshe, che non era del tutto paralizzata, ma si muoveva con una lentezza quasi impercettibile, ancora intrappolata nella sua stoccata. Non si accorse di lui. Un basso gemito le usciva dalla gola: il suo grido di morte, rallentato.

“Già.” Teferi fece un gesto, agitando un dito in un pigro movimento arcuato. La stoccata di Eshe accelerò e Teferi poté sentire il suo grido diventare normale. La confusione iniziò a fiorire sul suo viso mentre gli occhi dissero infine alla sua mente che Teferi era svanito.

“Quaggiù,” disse lui.

Eshe lo sentì pochi minuti dopo. La confusione si stava trasformando in rabbia, ma ora lei lo stava guardando. Teferi la osservò lottare contro il tempo rallentato, nel tentativo di girare la guardia sulla sua lancia, cercando di abbattere la lama in un colpo brutto ma funzionale.

“Amavo una carovaniera una volta,” disse Teferi. “Si chiamava Subira. Come te, lei pensava che fossi un assassino, quando ci incontrammo. Un idiota. Pensava molte cose su di me. Ma mi concesse la sua compassione. Mi ascoltò,” aggiunse Teferi. Alzò lo sguardo, non verso Eshe ma verso il cielo, ricacciando indietro le lacrime. “Mi ascoltò quando non meritavo di essere ascoltato. Ci amavamo e creammo una famiglia insieme.” Si asciugò le lacrime. “Lei non perse nessuno quando feci scomparire Zhalfir. Era cresciuta sulla strada, come la sua famiglia faceva da generazioni: Zhalfir era solo una storia per lei.” Fece una smorfia. Quello che avrebbe detto dopo faceva male, ma aveva bisogno di sentirlo dalla sua stessa voce.

“Penso,” disse Teferi, le parole dense e fredde in bocca, “di aver lasciato che il suo amore mi assolvesse dal grande dolore che vi ho causato. Il dolore che ho causato a Zhalfir, la nostra casa. Subira mi accettò, un atto che richiese molta delicatezza da parte sua. Ma il fatto di avermi accettato, e amato...” Teferi scosse la testa. “Un amore così salva un’anima, ma non guarisce questo.” Teferi affondò le dita nella terra rossa, ne tirò su due manciate e la lasciò cadere tra le dita. Il colore gli dipinse i palmi, scavò sotto le unghie. Non sarebbe mai andato via. “È morta prima che potessi trovare un modo per risolvere tutto questo.”

La lancia di Eshe finalmente si girò, di taglio. Era a trenta centimetri o poco più di distanza, e Teferi avrebbe potuto fermarla al minimo gesto; non era in pericolo, ma Eshe lottò comunque. Si asciugò i palmi sulla veste che gli avevano donato, poi allungò una mano e afferrò la lama della lancia.

“Non posso essere perdonato,” disse Teferi. “Posso solo fare ciò che è giusto.” Strinse la lama, lasciando che gli tagliasse il palmo. Il suo sangue, rosso vivo, gli scorse lungo il braccio e giù dal gomito, fino a mescolarsi con la terra. Zhalfir dentro di lui, e lui dentro Zhalfir, e il dolore come prezzo da pagare. “L’ho amata come ho amato questa terra,” proseguì. “E farò in modo che Zhalfir sia al sicuro attraverso ciò che verrà dopo. Questa è la mia promessa. È così che aggiusterò tutto.”

Eshe poteva sentire il dolore nella sua voce? Era intrappolata in quel momento mentre cercava di uccidere il Distruttore di Zhalfir, un uomo disperato venuto dal futuro che le diceva che la sua guerra non sarebbe finita qui. L’eco della sua recente esperienza con Urza pulsava ancora; si chiese se quelle figure oscure fuori dal laghetto in cui avevano nuotato stessero guardando adesso. Se stessero rivolgendo le loro menti immense e insondabili a questo momento. Se avessero intenzione di irrompere anche qui e mandarlo da qualche altra parte.

Dopo, pensò Teferi. Prima c’è ancora Phyrexia.

“Eshe, interromperò questo incantesimo,” disse Teferi. “Ma devi promettermi che mi lascerai andare.” Adesso era inevitabile che la sua presenza diventasse nota a Zhalfir. Tutto quel che Teferi poteva fare era guadagnare tempo prima che le autorità superiori venissero a cercarlo; anche se questo gruppo era composto da banditi e dai loro prigionieri, se avessero portato notizie del suo arrivo in tutta probabilità avrebbero provocato una tempesta tale da far passare in secondo piano le loro trasgressioni, o causato abbastanza tumulto da permettergli di fuggire nel clamore.

Il gemito di Eshe continuò. Teferi lasciò andare la lancia e si alzò, controllandosi il palmo tagliato. Fece qualche passo indietro rispetto a dove si trovava, lontano dai carovanieri che lo avevano trattenuto e ben al di fuori della portata della lancia di Eshe. Alzò le mani, evocando una spaventosa luce blu, un canale grezzo di mana che gli bruciava il naso e gli faceva rizzare persino i peli sulla nuca: questa era la zanna scoperta, il nucleo scoppiettante di un fuoco, qualcosa di profondo e primordiale non legato ad alcuna arte se non al potere grezzo e bruciante. Una dimostrazione, per ogni evenienza.

Teferi lasciò che il tempo riprendesse il suo corso normale.

Eshe terminò il suo grido, passando dalla rabbia all’angoscia. Inciampò all’indietro, sollevando la punta della lancia da lui. Teferi scosse il potere azzurrognolo dalle sue mani, rimandandolo nella terra.

“Grazie, Eshe.”

“Vattene via,” disse Eshe. Il sudore le bagnava la pelle scura, ansimando per lo sforzo di lottare contro la sua magia. Si costrinse a riprendere fiato, con le braccia che le tremavano.

Teferi alzò le mani, i palmi aperti verso di lei. Eshe non si mosse, ma molti tra carovanieri e guardie corsero via, riparandosi dietro i carri.

“Non c’è altro che tu possa dirci,” disse Eshe. “Vattene via.”

Teferi annuì. Si alzò, lentamente, e iniziò a indietreggiare. Eshe non lo guardava. Fissava il terreno dove era seduto, la terra smossa dove aveva raccolto delle manciate.

Teferi se ne andò, affrettando il passo lungo la strada, solo. Dopo un bel po’, Eshe e la sua carovana partirono insieme nella direzione opposta.


Altrove

Teferi dormiva e sognava.

C’è una grande catena di avvenimenti, forgiata in origine in fuochi molto distanti e defunti. Tutte le cose sono legate a questa catena e la percorrono, ma viaggiano all’indietro, capaci solo di vedere la catena com’era e non come sarà. Teferi ricordò il suo tentativo di spiegarlo a Urza nel momento in cui erano lontani, ma articolare la realtà era difficile. Forse avrebbe potuto riassumere tutto meglio prima di rinunciare alla sua scintilla per la prima volta.

La maggior parte degli esseri in questa grande massa ansante di creature senzienti attraverso il tempo e il Multiverso non hanno mai il lusso della rivelazione o della testimonianza, tanto meno la possibilità di afferrare la storia stessa e piegarla alla loro volontà; Teferi aveva rinunciato alla sua scintilla e poi l’aveva ripristinata: il potere che deteneva poteva benissimo essere divino. Il tempo era soltanto suo.

Ad ogni modo, questa catena è stata realizzata da molte mani, e sono in pochi a trovarsi al momento giusto della storia per imprimere il proprio segno. Più si continua a ritroso lungo la catena, più questi segni diventano sbiaditi. È vero l’inverso, quindi: più ci si trova vicini al margine grezzo della catena, più chiaro è il segno di chi lo lascia. Le firme di coloro che hanno forgiato un anello, intrecciato una connessione o forzato un diversivo, brillano tutte, raffreddandosi come se fossero incastonate nel ferro.

Teferi, in sogno, guardò in basso verso la catena che tintinnava dentro di lui. Nessun dolore, solo una linea infinita, che si estendeva giù, giù, giù nell’oscurità del passato, ogni anello impresso con il suo nome.


Zhalfir, mesi dopo

L’acqua del fiume era fresca e limpida, e portava una gradita sensazione di freddo giù dai monti Teremko inferiori. Anche mentre la luce si attenuava, l’immenso piano si aggrappava al calore del giorno.

Teferi lavorava, a torso nudo, guadando il fiume nel punto centrale di una lunga fila di altri lavoratori, con i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia, tirando insieme una rete a maglie fini attraverso l’ampiezza della lunga e poco profonda ansa interna del fiume. Oltre l’ultimo pescatore, il letto del fiume sprofondava, scendendo in profondità fino a raggiungere la sponda opposta, dove la corrente scavava costantemente il terriccio sabbioso. Questa era la loro rete conclusiva, l’ultima della giornata.

Minuti e ore si mescolavano insieme. Tutti i momenti erano uno: l’acqua gorgogliante intorno alle sue gambe era il rombo lontano del possente fiume. La dolce corrente era la ruvida corda nelle sue mani. Trascinato a tempo dalla semplice melodia che cantavano gli altri, vi aggiunse la sua voce. La canzone che usciva dalle sue labbra era l’aria dei polmoni dei suoi compagni che tiravano anche loro la ruvida corda, che davano le spalle alla dolce corrente, che udivano il rumore lontano del fiume e il suo dolce gorgoglio.

Lavoro condiviso, tempo condiviso. Bellezza sul fiume, questo semplice lavoro, questa fatica di molte braccia che trascinavano, molte gole che cantavano, molte mani su una rete fabbricata anni prima dalle dita di abili artigiani, che tiravano per catturare grossi pesci argentati dal fiume freddo e limpido. Speranza nelle mani che tiravano le fibre, le dita abili che ricucivano, le braccia scurite dal sole che tiravano a sé la speranza attraverso il tempo. Una rete che aveva avvolto centinaia di vite in un ininterrotto periodo di tempo e sforzo per produrre, alla fine di tutto, la vita.

“Plasmatore,” lo chiamò la lavoratrice al suo fianco. Su e giù per tutta la linea, cullate dalla melodia, si svolgevano piccole conversazioni. Come il fiume, la canzone conteneva vortici e spirali. “Quando verrà la guerra, marcerai con i clan o rimarrai qui al villaggio?”

“A me piacerebbe restare,” rispose Teferi. Grugnì e lavorò con il suo tratto per tirare la rete, mano dopo mano. “Ma sono al servizio della regina. Ovunque lei voglia inviarmi, io andrò.”

“Tu vivi come questi pesci,” disse la lavoratrice. “Io mi unirò agli akinci insieme alle mie sorelle quando giungerà la guerra.”

Teferi la guardò. Era giovane e portava le spalle dipinte per trarne forza. Quel che aveva imparato in questo lavoro avrebbe guidato la sua lancia, teso il suo arco.

“Quante sorelle hai?”

“Tre,” disse la lavoratrice. “Neema, Kani e Amana.”

“E qual è il tuo nome?”

“Oyana. Io invece so chi sei,” disse Oyana. “Sei silenzioso, ma non hai bisogno di parlare per essere riconosciuto. Dovresti far sentire di più la tua voce.”

Teferi sorrise. Era gentile da parte sua suggerirgli di parlare di più, ma sentiva di aver parlato abbastanza. Tacere era una forma di prudenza e penitenza.

“Secondo gli altri, sei venuto nel nostro villaggio per nasconderti,” disse Oyana. “Kani mi ha detto che ti hanno sputato addosso e che sei stato maledetto, quando sei andato in città. Non riesco a immaginare azioni del genere da parte di quella brava gente, ma Kani dice anche che la brava gente di città parla a bocca chiusa.”

Teferi grugnì. Non ci aveva mai fatto caso.

“Mia sorella Neema era già al servizio del generale Mageta quando la regina li esortò a prepararsi. Io, Kani e Amana saremmo dovute rimanere qui, a fare questo,” disse tirando il suo tratto di rete. “Ora siamo tutte abbastanza grandi per combattere, e questo lavoro mi ha reso forte.” Oyana si alzò e contrasse i muscoli. “Al nostro ritorno, sarò al fronte e mostrerò a tutta Dominaria chi siamo noi e chi sono loro.”

Teferi si chinò per tirare il tratto successivo, lavorando per riavvolgere la rete.

“Zhalfir è pronto,” disse Oyana. Ora parlava con voce ferma, attirando l’attenzione degli altri lavoratori intorno a loro. “Io sono pronta. Le mie sorelle e i miei fratelli sono pronti. I Phyrexiani non hanno speranze contro di noi.”

Gli altri lavoratori mormorarono il loro assenso, borbottando, alzandosi al suono del fiume.

“Perciò non hai niente su cui tacere,” disse Oyana al Plasmatore. “Tu sei il padre di Zhalfir. I nostri credi sono stati plasmati da te. La nostra terra è stata mossa da te. Parla con la bocca aperta, Teferi.”

Teferi afferrò il tratto di rete successivo e non disse nulla. Lavorava, consapevole degli occhi di Oyana su di lui, degli occhi di tutti i lavoratori su di lui, del sole al tramonto e dell’acqua attorno alle sue gambe che da fresca diventava fredda. Poteva sentire la rabbia ribollire attraverso gli sguardi di alcuni lavoratori, ma molti erano curiosi, e lo fissavano come si farebbe con una creatura rara, maestosa e pericolosa.

“Cos’hai detto?” chiese Oyana. Gli altri lavoratori erano tornati al loro diligente lavoro, ma non Oyana. Era rimasta a osservarlo, in attesa di una sua risposta. Teferi non era sicuro se la sua domanda era dovuta al fatto che lei l’aveva sentito, o se la sua voce, a lungo silente, si fosse persa sotto il fiume.

“Nessuno è pronto,” Teferi ripeté a se stesso. “Nessuno può fermarli. Nemmeno i coraggiosi.”

Oyana fece un passo indietro. Si accigliò, squadrò Teferi dall’alto in basso e scosse la testa. Poi si allontanò.

Teferi tornò al suo lavoro.

A valle, dove il pescato danzava e saltava, il fiume prendeva una piega, portando con sé l’erba alta e i grandi alberi, la terra e l’orizzonte. Montagne lontane catturavano la luce del sole al tramonto, creste che lampeggiavano luminose sfidando la fine del giorno, avvallamenti già scuri come la notte che si avvicinava. Le nuvole in alto striavano il cielo delle tonalità ricche e calde dell’estate. Piena estate, nessun soffitto sopra il piano. E un vuoto oltre il cielo. Una cecità empirea che li nascondeva tutti dai terrori al di là.

Alzando lo sguardo, Teferi riusciva appena a vedere quel vuoto dietro il cielo, come se fosse nuda pietra visibile sotto un sottile strato di vernice: il lavoro di oscuramento non ancora completo. Sorrise. Teferi era a casa.


Teferi e i pescatori tornarono al villaggio al crepuscolo, la lunga rete arrotolata e portata sulle spalle come il cadavere di un grande serpente. Avevano con sé la pesca e le torce per illuminare la strada. Ci fu poca conversazione: al calar della notte, furono raggiunti dalle fatiche della giornata, e tutte le menti erano rivolte al cibo, al ritorno alle loro famiglie e al riposo.

Il villaggio si confondeva con la terra, una disposizione ordinata di case di mattoni d’argilla e di edifici comuni lunghi e bassi con tetti abitabili. Granai, fornaci, affumicatoi, fucine fredde, concerie, stalle pubbliche: questo era un centro per gli agricoltori, i pescatori, i cacciatori e i foraggieri che vivevano nella regione, ed era un satellite della città a una decina di chilometri a ovest. Un piccolo, tozzo tempio a cupola era l’unico edificio che si distingueva dagli altri: la sala della fede. A differenza degli altri edifici e delle case che si confondevano con la prateria, la sala della fede voleva farsi notare. Occupava una posizione centrale nel villaggio, un umile tempio dei cinque credi della magia, una fede e una filosofia che guidavano Zhalfir, e un luogo in cui i membri di qualsiasi credo potevano riposare mentre attraversavano il regno.

Illustrazione di: Ilse Gort

Teferi si infilò nell’edificio, prendendosi un momento per lavarsi i piedi nell’abbeveratoio piastrellato all’ingresso della sala della fede. Un semplice tramezzo separava lo spazio interno della cupola dall’ingresso, un pannello per attenuare qualsiasi luce e attutire qualsiasi suono che potesse filtrare dall’esterno. Teferi inspirò l’incenso inebriante e leggermente dolce che ne uscì. Legna dei boschi di Zhalfir, fumante nel pozzo di mana al centro della sala della fede. Chiuse gli occhi. Un momento di riverenza, di un dolore placato, di cavità dei polmoni e del cuore che si riempivano ancora una volta dopo essere state vuote così a lungo che aveva dimenticato che potevano essere riempite. Si asciugò i piedi. Superò il paravento d’ingresso ed entrò nella camera principale.

La stanza sotto la cupola era un pentagono, e ogni lato rappresentava uno dei cinque colori della magia. Di fronte all’ingresso c’era una parete scura con una semplice porta incastonata; oltre la soglia, umili alloggi erano tenuti pronti per i membri dei credi. Una panca bassa circondava la stanza, arretrata rispetto all’elemento centrale: una ciotola di pietra bassa e larga che conteneva un modesto letto di carboni di legna ardenti. Quel fioco calore era l’unica luce nello spazio che, sotto la cupola, sembrava vasto, molto più grande di quanto suggerisse l’esterno del pozzo di mana.

Teferi si mosse lentamente e in silenzio, dirigendosi verso la sua postazione appena a sinistra dell’ingresso. Lì si fermò davanti all’arco del Credo del Plasmatore, si inginocchiò per afferrare il bordo della ciotola e vi premette contro la fronte. Il mormorio del mana risuonava attraverso di lui, una sensazione calda e familiare che risaliva da questo pozzo e si raccoglieva nell’ampio bacino di pietra. Da qualche parte sotto di lui, intorno a lui, attraverso di lui, c’era una leyline.

“Kaya,” sussurrò Teferi. “Riesci a sentirmi?”

Nulla. I carboni scoppiettavano; un ceppo di legno si sgretolava.

“Il mio nome è Teferi Akosa. Sono il guardiano dei perduti e dei dimenticati. Padre di Niambi e marito di Subira. Io...” Teferi interruppe la sua declamazione. Uno strascichio, dal lato opposto della camera. Guardò oltre l’orlo della ciotola e vide una giovane accolita che chiudeva con cura la porta dietro di sé. Indossava semplici vesti bianche, che la indicavano come una novizia del Credo Civile; aspirante guaritrice, era rimasta vicina a Teferi non appena era arrivato al villaggio, non per imparare ma per assicurarsi che non cadesse in rovina.

“Adia,” disse Teferi, salutando l’accolita.

“Plasmatore,” mormorò Adia. Parlare più forte nella sala della fede sarebbe stato come gridare. “Sei tornato. Hai trascorso una buona giornata?”

“Una buona giornata,” disse Teferi, alzandosi. “Abbiamo pescato in abbondanza per la nostra quota: gli agricoltori potrebbero protestare, ma saremo in grado di completare l’ordine della regina e avere eccedenze a disposizione per il commercio.”

Adia annuì. “Alcuni soldati da Kipamu sono venuti a cercarti.”

“Quando?”

“Poco dopo che sei partito per il fiume. Pensavano di trovarti qui.”

“Hanno detto perché?”

“Per la guerra,” rispose Adia. Allargò le mani, i palmi verso l’alto. Non c’era altro da dire. La regina aveva ordinato che tutto Zhalfir fosse mobilitato, i cinque maghi eletti e il generale Mageta concordarono, e così Zhalfir sarebbe stato mobilitato. Un organo perfetto, uno stato logico e sobrio, un popolo motivato a mettersi alla prova e un piano da salvare. Candido e immacolato, un mito in attesa di essere scritto, con piazze monumentali di piedistalli vuoti in attesa delle statue dei suoi eroi, muri spogli in attesa dei mosaici delle sue grandi battaglie.

Quel vicolo, quella città, quel ragazzo che piagnucola, tutto quel sangue, quei corpi, il fuoco sopra tutto, il motore di acciaio vivo.

“Ho riferito loro che eri andato al fiume,” disse Adia. “E che saresti tornato questa sera.”

“Ligia al dovere,” disse Teferi con una smorfia.

Adia inclinò la testa, un piccolo gesto al posto di un grande inchino.

“Dovrò prima lavarmi e mettere qualcosa sotto i denti,” Teferi oltrepassò l’accolita, dirigendosi verso la sua stanzetta. “Vai a cercare i soldati, dì loro che mi troveranno qui. È tutto. Grazie,” disse, facendo cenno ad Adia di andare. Non attese l’uscita della giovane accolita; aveva bisogno di cibo e vestiti freschi, un momento di riposo. Al ritorno di Adia con i soldati, nessuna di queste cose sarebbe stata scontata.


Soldati era un drammatico eufemismo. Teferi si aspettava una manciata di akinci al seguito di qualche ascari di mezza età, come anatroccoli dietro la madre; il gruppo che lo accolse quando uscì nella camera principale della sala della fede somigliava di più a un concilio di guerra. Ad attenderlo c’erano una dozzina di sidar muscolosi in ricche vesti blu e armature bronzee finemente lavorate, alti guerrieri che portavano le loro spade pronte a essere sguainate, ricche pellicce sulle spalle e acciaio negli occhi. I sidar circondavano il loro capo, un ufficiale in una lucente armatura d’argento che stringeva sotto il braccio un elmo dalle ali rosse.

“Planeswalker Teferi,” ruggì il generale, allargando le braccia. “Bastardo... Ti ho trovato!”

“Sono solo Teferi Akosa adesso, Jabari,” rispose Teferi. Si concesse un piccolo sorriso, sollevato per il momento. Se la regina aveva mandato il suo carnefice, almeno era un amico. “Ne è passato di tempo.”

“Davvero?” chiese Jabari mentre si abbracciavano. Diede una pacca sulla schiena di Teferi, stringendolo, poi si tirò indietro, e gli appoggiò una mano sulla nuca. “Forse per te,” disse indicandolo, “ma non per me. Qualche capello grigio in più, ma non tanti come te.” Jabari rise di nuovo e lo lasciò andare. “Tu sei tornato, ma dov’è il resto del piano? I nostri marinai continuano a dire che non c’è niente al di là della riva, e i ranger che si arrampicano nella nebbia non fanno ritorno.”

“Zhalfir è ancora da solo,” disse Teferi. “Mi dispiace.”

“Non fare così, ora. Basta chiedere scusa,” disse Jabari. “Ho sentito storie del tuo pellegrinaggio penitente, sembra estenuante.” Fece cenno al suo seguito di lasciarli e condusse Teferi fuori dalla sala della fede. “Il grande mendicante, sempre un passo davanti a noi. Tirati su. Sei l’arcimago di Zhalfir e Zhalfir ha bisogno di te.”

“La regina Wezna mi ucciderà.”

“Beh, sì,” Jabari annuì. “Ma solo dopo aver aiutato Zhalfir.”

“Non so se ne sono capace,” disse Teferi. “Non sono nemmeno sicuro di riuscire ad aiutare me stesso.”

“Che intendi dire?”

“Non ho idea di come sono arrivato qui. Non avrei dovuto essere in grado di farlo. Zhalfir è. . .” Teferi agitò una mano, alla ricerca delle parole. “Perduto. Solo. Lo hai detto anche tu: non c’è niente al di là della riva.”

Jabari rifletté su queste parole, le braccia incrociate, il mento abbassato sul petto. Si accigliò, si allontanò di qualche passo, si fermò e fece cenno a Teferi di seguirlo.

Teferi e Jabari si allontanarono insieme dagli ascari del generale e dalla sala della fede. Il villaggio era vivo intorno a loro, animato dal suono di canti, risate e rumori allegri. La pesca era stata ricca, proprio come pensava Teferi: abbastanza per la decima del villaggio da destinare allo sforzo bellico, e in quantità da festeggiare.

“C’è una cosa che devi sapere,” disse Jabari, parlando a bassa voce. “I miei ascari sanno solo che dobbiamo reclutare nuovi soldati e portare te dalla regina, ma non ne conoscono il motivo.”

“Quindi?”

“Non sei l’unico qui a essere venuto da fuori.”

“Cosa?”

“Zhalfir non è poi così solo,” disse Jabari. "Vecchio mio, è così che ci aiuterai; verrai con me ad Aku a incontrare quest’altro viandante come te.”

“Aku.” Gli tornarono in mente vecchi ricordi: i campi di colonne e le tombe, l’antica città di Aku, che si ergeva sopra il pantano fumante che era la vasta palude di Uuserk. “Non è Kaervek?”

“No,” rispose Jabari. “Si tratta di una donna, ha un portamento regale. L’abbiamo messa al sicuro nell’ambra, ma prima di farlo,” Jabari allungò di nuovo la mano verso Teferi, picchiettandogli sul petto per enfatizzare ogni parola. “Lei ha chiesto di te.”

Una donna di portamento regale. Ne conosceva troppe. Kaya e Saheeli potrebbero aver escogitato un modo per attraversare il vuoto e raggiungere Zhalfir? Da quanto era fuori da questo spazio? Il tempo in questo luogo trascorreva diversamente dal tempo al di fuori di esso, ormai lo sapeva abbastanza bene. Forse avevano ricostruito l’ancora, forse avevano trovato Karn o inviato quest’altra Planeswalker come era stato inviato lui, ma in modo da poterli riportare entrambi indietro.

“Descrivimela.”

“Giovane, ma con i capelli bianchi,” disse Jabari. “Una spada sottile, una raffinata armatura d’oro. I sapienti mi dicono che ha tutta l’aria di essere una Madaran. E poi questo...” Guardò oltre Teferi e fece un fischio a uno dei suoi soldati, facendogli cenno di avvicinarsi. Il soldato, che trasportava un oggetto avvolto in un panno, si affrettò verso di loro. Si inchinò e offrì la stoffa a Teferi e Jabari.

Teferi prese il fagotto. Lo scartò, rivelando uno squisito cappello a tesa larga. Era corazzato in un colore oro-verde lucido e laccato: leggero, ma robusto, un ottimo compromesso tra difesa e ornamento.

“Uno strano cappello, ma buono per viaggiare,” disse Jabari.

“Buono per vagare,” mormorò Teferi. Riconobbe la donna dalla descrizione. Non era una viandante qualunque, ma la Viandante. Un’altra Planeswalker, qui su Zhalfir. Non Kaya o Saheeli, ma un’altra che sapeva dove cercarlo.

“Quando partiamo?” chiese Teferi.

“Domani,” rispose Jabari. “Dovremo sbrigarci: la regina è già lì, e attende l’arrivo del suo arcimago.”

“Domani,” ripeté Teferi. L’indomani sarebbero partiti per Aku, per incontrare la Viandante e scoprire quale messaggio portava. Cos’era questa sensazione? Speranza, capì Teferi. Speranza per un momento, seguita dal freddo sussurro della verità: questa è stata una rivelazione felice, ma non buona. Se Zhalfir era di nuovo connesso al Multiverso significava anche che Zhalfir sarebbe stato in pericolo.


La mattina dopo, i sidar di Jabari erano in piedi prima dell’alba, occupandosi dei carri di rifornimenti e dei loro bagagli personali. Più tardi, quando il sole cominciò a dissipare la foschia mattutina, un paio di nuove reclute, giovani che avevano finalmente raggiunto la maggiore età per unirsi alle bande, si aggregarono a loro. Teferi arrivò con questo gruppo, insieme al resto del villaggio. I pescatori si erano già diretti al fiume molto prima dell’alba, lasciando solo una silenziosa popolazione di anziani e artigiani della terraferma a salutarli.

Il viaggio sarebbe stato lungo, attraverso le pianure di Mtenda fino agli altipiani rocciosi che delimitavano il nord di Zhalfir. Nella sua giovinezza, Teferi conosceva i sentieri che si snodavano tra le possenti dorsali dei monti Teremko, ma immaginava che la strada che seguivano deviasse verso ovest lungo la costa, attraverso le rive della baia di Buleusi prima di tornare a sud. Al termine di quella strada sorgeva Aku, la città delle tombe, nascosta nelle remote paludi di Uuserk, lontana dalla luce di Kipamu.

“Plasmatore?”

Teferi alzò lo sguardo da terra e vide Adia, l’accolita del pozzo di mana, avvicinarsi a lui con un fagotto di stoffa.

“Ho pensato che dovessi avere questi,” disse Adia. Porse il fagotto a Teferi, con un lieve cipiglio sul volto.

“Cos’è?” chiese Teferi, accettando il morbido fagotto. Lo srotolò, sollevando le vesti davanti a sé.

“Le vesti del vecchio Plasmatore, prima di te,” disse Adia. “Sono pulite. Ho rammendato i fori causati da falene e topi. Sono appropriate per il tuo rango. Lo stile è un po’ più vecchio, ma...” si strinse nelle spalle “anche tu lo sei.”

Teferi sorrise. “Grazie, Adia.”

“Vivo per servire il credo,” disse, con voce piatta. Si inchinò, si rialzò, mise le mani davanti a sé, continuando a non guardare Teferi.

“Ho una figlia, Adia,” disse Teferi con benevolenza, mentre arrotolava le vesti. “Anche lei un tempo aveva la tua età.”

“Cosa?”

“Ho l’impressione che tu abbia altro da dire.”

Adia annuì.

Teferi finì di riporre le vesti nel suo zaino, lasciando che Adia si prendesse il tempo di cui aveva bisogno.

“Se Zhalfir torna, significa che la guerra sta per iniziare,” disse Adia. “Iniziare per davvero. Niente più attesa o addestramento. Non sarà più ‘Zhalfir da solo’, torneremo nel mondo reale.”

“È vero,” rispose Teferi.

Adia guardò di lato, controllando che nessun altro potesse sentire. Tutti gli altri erano impegnati in piccole conversazioni: anziani che salutavano i loro nipoti adulti, reclute impazienti che si mettevano in mostra davanti agli ascari di Jabari, Jabari che parlava con i suoi attendenti. Potevano godere di una certa riservatezza in mezzo agli altri.

“Non sono così sicura che il ritorno di Zhalfir nel mondo sia una buona cosa, se questo ritorno significa che la guerra avrà inizio... inizio per davvero,” disse Adia, parlando velocemente e tutto d’un fiato, come se stesse sputando una disgustosa pastiglia che era stata costretta a ingoiare. “Questo limbo è sgradevole, ma è ancora pacifico; la Guerra dei Miraggi e la Guerra di Keld hanno preso qualcuno da ogni famiglia, e quelle erano guerre contro persone, come te e me.” Alzò lo sguardo verso Teferi. “Io sono orfana a causa della Guerra di Keld. Servo il Credo Civile per ciò che mi ha tolto quella guerra. Credo che la nostra gente immagini la guerra contro Phyrexia solo come una prova. Un grande esame, dove poter comprovare la loro forza e mostrare a Dominaria dove sorge il sole. Penso che abbiamo tutti perso così tanto che non riusciamo a immaginare di perdere nient’altro; dimentichiamo ciò che si prende una guerra, anche quando non è rimasto più niente.”

Teferi allungò un braccio e scostò delicatamente Adia di lato, un po’ più lontana dal gruppo. Le reclute erano agli ultimi saluti e i sidar stavano iniziando a mettersi in fila.

“Sono terrorizzata dal prezzo che esigerà questa guerra,” continuò Adia a bassa voce. “Mi sembra di impazzire dalla preoccupazione: perdere significa la rovina, ma cosa succede se vinciamo?” Indicò i sidar e le reclute alle loro spalle. “Zhalfir ha trascorso così tanto tempo nell’attesa e ad affilare le sue spade che quando sconfiggeremo Phyrexia, scopriremo che la guerra è l’unica cosa che sappiamo fare.”

Teferi non disse nulla.

“Cosa faremo?” chiese Adia. “Cosa farò io?”

“Teferi!” Jabari chiamò dalla testa della colonna in formazione, facendogli cenno di avvicinarsi. “Non provare a scappare di nuovo, Planeswalker, o ti userò per addestrare il fiuto dei miei esploratori!”

Teferi rispose al cenno e poi tirò su la sua sacca. Adia non si mosse. L’accolita attendeva una risposta che Teferi non aveva ancora. Invece, tutto ciò a cui riusciva a pensare era sua figlia, Niambi.

Una volta, quando Niambi era molto giovane, stavano giocando nel loro cortile mentre Subira era via. Ridendo, libera e senza paura, Niambi aveva iniziato a correre. Inciampò prima che Teferi potesse avvertirla, e prima che se ne rendesse conto, l’aveva congelata nel tempo, fermando la sua caduta.

Ricordava di averle camminato intorno, cercando di valutare ogni possibile risultato di rilasciarla da ciò che poteva raccogliere di quell’unico momento, congelato nel tempo. Avrebbe potuto tenerla lì per sempre se avesse voluto, ed era quello che una parte di lui desiderava, tenerla lì, al sicuro, lontana dal mondo... ma si era scrollato di dosso quel pensiero oscuro. Decise di trovare una via di mezzo tra la caduta e la salvezza: afferrarla.

Adesso non poteva afferrare tutti loro per impedirgli di cadere, ma poteva essere al loro fianco.

“Alcune cose sono così grandi,” disse Teferi, “che non c’è niente che tu o io possiamo fare per fermarle.”

“Non tu,” rispose Adia. “Non più grandi di te. Ci hai mandato via per proteggerci, quindi tienici lontani. Proteggici, proteggi Zhalfir.”

“Non posso.” Teferi scosse la testa.

“Ma l’hai già fatto una volta!”

“Allora ero una persona diversa,” rispose Teferi. “Ero. . .di più. Di meno. Ero qualcun altro.” Guardò la strada. Fino ad Aku e oltre. “Ascolta, Adia... Sono mancato qui per molti anni, ma nel breve tempo in cui sono tornato... Zhalfir non è solo guerra. Non viviamo solo per combattere. Eravamo qualcos’altro prima di tutto questo,” continuò Teferi. “Non possiamo fermare quel che sta arrivando, ma possiamo controllare ciò che accade dopo.” Teferi indicò i soldati, le reclute, la terra. “C’è un grande terrore in arrivo, certo, ma rimarrà solo fino a quando noi sceglieremo di trattenerlo.”

“Non capisco.”

“Non siamo vincolati dal destino,” disse Teferi. “Solo dal nostro passato. Non siamo sempre stati soldati. Non siamo sempre stati soli.”

Adia alzò un dito per rispondere, poi si fermò. Si ricompose. “Possa tu raggiungere la tua destinazione,” disse. Adia non attese la risposta di Teferi, ma se ne andò, tornando a passi svelti verso il villaggio. Teferi non cercò di fermarla, si limitò a osservarla mentre si faceva strada tra le file di reclute impazienti. Le sue vesti, bianche come nuvole, scomparvero tra la folla.

Cosa pensò, quella volta in cui Niambi cadde? Nessuna quantità di ricerca interiore potrebbe riportare indietro Zhalfir. Beh, una certa quantità di ricerca interiore ha riportato lui indietro, solo per fargli scoprire che nessuna quantità di scuse poteva sistemare ciò che aveva fatto. Non sarebbe mai stato facile come riportare indietro Zhalfir; Zhalfir non era solo un nome su una mappa. Era una nazione, un popolo, una storia, un futuro e niente che lui potesse controllare. Niente che potesse salvare da solo, per quanto lo volesse. Non era questo che contraddistingueva un buon genitore? Sapere quando non c’era niente che potessero fare se non essere lì per i loro bambini quando ne avevano più bisogno? Aveva fatto un torto a tutti loro, ma ora poteva stare al loro fianco; poteva insegnar loro come prepararsi alla caduta e aiutarli a rialzarsi.

“Teferi!”

“Jabari,” gridò di rimando Teferi. Aspettò un battito di cuore. Si portò le dita alle labbra, le baciò, se le appoggiò alla fronte e si mise la mano sul cuore. Un vecchio gesto. Un gesto di gratitudine verso questo luogo per ciò che gli aveva dato, per ciò che gli aveva insegnato.

Teferi partì con i soldati e le reclute, marciando al loro fianco sulla lunga strada per Aku.


Aku, qualche settimana più tardi

Il viaggio verso Aku non si rivelò lungo, quanto irto di pericoli, ma Jabari e i suoi soldati, con l’aiuto di Teferi, avevano percorso la strada fino alla fine senza subire perdite. Una volta raggiunta la città, senza nemmeno il tempo di rinfrescarsi o mangiare, i corridori vennero a prelevare Teferi e Jabari.

Le sale di Aku erano calde e solenni. La presenza della regina esigeva che fossero appesi arazzi e srotolati ricchi tappeti sui lucidi pavimenti, che i bracieri venissero caricati con legna fumante e altri combustibili delicatamente profumati; Aku poteva anche essere una città delle tombe, ma non era un luogo disprezzato. Queste decorazioni erano per i morti, ma anche per i vivi: le discendenze reali di Zhalfir riposavano qui, e la regina era venuta da loro alla ricerca di ispirazione, conforto e guida spirituale: la solennità era un segno di rispetto, non di paura. Di pace, per canalizzare al meglio la saggezza di un popolo.

Tuttavia, questo senso di pace non si estendeva a tutta la città. Le Tombe d’Ambra, dove gli oscuri segreti del passato erano custoditi dalle magie più formidabili, e dalle più antiche e potenti nozioni di saggezza che gli antenati di Zhalfir potevano impartire, traboccavano di un’energia inquietante. Vennero collocate ulteriori torce e splendipietre per bandire le ombre persistenti che indugiavano nei corridoi, e in particolar modo all’interno della cupola principale delle Tombe d’Ambra, dove era possibile sorvegliare le minacce più pericolose che incombevano su Zhalfir.

Teferi e Jabari seguirono i corridori attraverso i tortuosi anditi del distretto centrale di Aku fino alle Tombe d’Ambra, dove erano attesi dalla regina. Ogni svolta delle strette e alte sale delle strade di Aku era pattugliata da un paio di guardie della regina, spesso accompagnate da un membro del Credo dei Plasmatori o, cosa preoccupante, da chierici del Credo Civile che indossavano armature.

“Non è uno schieramento normale, vero?” sussurrò Teferi a Jabari mentre i due passavano davanti a una coppia di chierici che li salutarono.

“No, affatto,” mormorò Jabari. “Dev’essere successo qualcosa nelle tombe.”

“Magari la regina sospenderà la mia esecuzione,” disse Teferi. “È una battuta, non una supplica,” aggiunse. “Giusto per chiarezza.”

Jabari grugnì, senza sorridere, e accelerò il passo.

I due raggiunsero le Tombe d’Ambra e trovarono l’ingresso affollato di soldati e chierici, con le armi sguainate, alcuni rivolti nella loro direzione, altri rivolti verso l’interno. Due ufficiali, ascari di una certa anzianità, discutevano tra loro quasi sussurrando, le loro voci aspre e incomprensibili nel corridoio echeggiante.

“Ascari,” disse Jabari, deciso, con un tono alto ma senza gridare. La sua voce tagliò il rumore. “Cosa sta succedendo? La regina è in pericolo?”

I sidar smisero di discutere, rivolgendosi entrambi all’unisono a Jabari.

“Kaervek è fuggito,” disse una degli ascari. Era composta, ma i nervi le assottigliavano il viso già severo. “La sua prigione è andata in frantumi. Il generale è ferito, ma stabile.”

“Quando?” chiese Teferi.

“Un’ora al massimo,” rispose l’ascari, asciugandosi il sudore dalla fronte.

“Il generale Mageta è stato ferito un’ora fa?” chiese Jabari, scioccato, alzando la voce.

“L’abbiamo appena scoperto,” disse l’ascari, alzando una mano per cercare di calmare Jabari. “È stato ferito nella distruzione della prigione di Kaervek, ma sopravviverà: è una brutta ferita, ma non letale.”

“Fateci passare,” ordinò Teferi. Non c’era tempo per le parole.

Le guardie si fecero da parte. Teferi condusse Jabari attraverso la camera centrale della Tomba d’Ambra, un’unica, vasta cupola scura. Dei candelabri si trovavano nelle pareti a intervalli regolari, con luci fioche che brillavano nelle loro profondità. Erano tutti vuoti, ma era abbastanza facile discernere ciò che erano stati un tempo: prigioni d’ambra.

La camera era antica e si sussurravano leggende sulle sue origini oscure, su magie e rituali rischiosi che gli antenati di Zhalfir impiegavano per assicurarsi che coloro che vi erano rinchiusi rimanessero tali; un pendolo di protezione sospeso dall’apice della cupola fungeva da sistema di allarme. Gli studiosi di Zhalfir liquidavano queste storie come miti e fantasticherie, ma pochi visitarono la cupola centrale delle tombe, e tutti coloro che lo fecero non poterono negare una certa sensazione snervante nella stanza. Un silenzio avvolgeva la camera che, essendo una cupola, avrebbe dovuto risuonare come una sala da concerto. Una sensazione profonda e sicura di rovina imminente, nel caso in cui quel pendolo brunito si fosse mosso anche di poco.

Con orrore, Teferi vide che il pendolo si era spezzato ed era caduto sul lucido pavimento della cupola. La punta era conficcata nel terreno, la sua grande catena gli si era attorcigliata attorno come il cadavere di un grande serpente. Il pavimento, lucidato a specchio, si era spaccato. Un liquido scuro, che Teferi immaginò essere il sangue del generale Mageta, si era raccolto in una chiazza vicino al pendolo, resistendo agli sforzi di un pugno di soldati che tentavano di ripulirla.

La regina Wezna se ne stava in disparte e conversava con due figure, una avvolta in vesti di azzurro cielo e l’altra di velluto nero. Una terza persona, dall’armatura bianca, se ne stava di lato, esaminando pigramente il pendolo caduto e il terreno frantumato. Teferi non riconobbe nessuna delle figure, i leader dei rispettivi credi, ne era sicuro, ma la regina era inconfondibile, aveva solo dieci anni in più dall’ultima volta che l’aveva vista, secoli prima.

“Vostra grazia,” chiamò Jabari, inchinandosi rapidamente mentre lei si voltava. “Chiedo la vostra comprensione; siamo appena arrivati...”

“Trecentosessant’anni,” disse la regina Wezna, dirigendosi verso Teferi. Le sue non erano grida, quanto declamazioni, e la cupola risuonò della sua voce. “Sono trascorsi trecentosessant’anni, e siamo ancora noi contro di loro,” disse la regina. “Phyrexia incombe sui nostri confini, Kaervek è fuggito e il generale Mageta è ferito.” Si fermò a pochi passi di distanza, seguita dai tre leader del credo. “E tu, sei tornato da noi. Non esiste punizione abbastanza grande da bilanciare gli atti di cui ti sei macchiato: dammi un motivo per cui non dovrei ordinare che la condanna che pende sul tuo capo venga eseguita in questo preciso istante.”

“Se mi uccidete,” disse Teferi, “loro avranno già vinto.”

La regina inspirò ed espirò. Annuì.

“Sidar Jabari,” disse la regina Wezna, rivolgendosi al vecchio ufficiale senza interrompere il contatto visivo con Teferi. "I Civili hanno un ospedale nel distretto delle colonne; il generale è lì, convalescente. Vai da lui. Sarai tu a condurre l’esercito finché non si sarà ripreso.”

“Sì, Vostra Grazia,” disse Jabari. Teferi lo sentì allontanarsi, il suono dei suoi stivali frettolosi sulla pietra levigata.

La regina Wezna si voltò e tornò al pendolo caduto, le mani incrociate dietro la schiena, pensierosa. Si fermò davanti ai tre maghi del credo, voltando le spalle a Teferi.

“Non sono stata io a convocarti,” disse la regina Wezna, rivolgendosi a Teferi. “Non posso ancora farti assicurare alla giustizia per i tuoi crimini, grandi o piccoli, ma ho il mio orgoglio.” Si girò per guardarlo. “Non sono stata io a convocarti.”

“Lei dov’è?” chiese Teferi.

La regina infilò una mano nelle sue vesti, tirò fuori un piccolo gingillo d’ambra grande come un palmo e lo lanciò verso di lui. La prigione d’ambra rimbalzò, scivolando sul lucido pavimento di pietra fino a fermarsi ai piedi di Teferi.

Teferi si chinò a raccogliere la prigione, pizzicandola tra l’indice e il pollice. La sollevò alla luce, illuminando la figura all’interno. Piccola, congelata nel tempo, probabilmente pochi istanti dopo il viaggio tra i piani, una guerriera nel mezzo del suo attacco. Strizzando gli occhi, Teferi riuscì a scorgere sul suo volto un’espressione di determinazione che scivolava nella confusione: un sopracciglio duro che si addolciva, la bocca che si apriva per fare una domanda, gli occhi spalancati per la sorpresa.

La Viandante.

“Quando hai finito di guardare, appoggiala a terra,” disse la regina.

Teferi obbedì. Posò delicatamente la prigione sul pavimento e poi fece un passo indietro.

La regina Wezna schioccò le dita e il leader del credo in armatura bianca si fece avanti. Sussurrò un incantesimo discreto, con padronanza e senza teatralità. La prigione cominciò a illuminarsi.

“Un altro passo indietro, arcimago,” disse, guardando Teferi oltre la luce nascente.

Teferi obbedì, arretrando mentre la prigione cominciava a scoppiettare scintille. Si schermò gli occhi e si voltò mentre la prigione si spezzava, spalancandosi con uno schianto secco seguito pochi istanti dopo da una breve, acuta espirazione mentre la Viandante terminava il suo slancio, gridando di sorpresa.

La Viandante si riprese, ripristinando la sua posizione e la sua guardia, respirando con affanno, la sua compostezza scossa ma non spezzata.

“Viandante,” gridò Teferi, mani alzate e palmi in fuori. “Sono io.”

“Teferi?” gridò in tono eccessivamente alto. La Viandante esaminò rapidamente l’ambiente circostante, con la guardia alta. “Dove mi trovo? Quanto tempo è passato?”

“Ad Aku,” disse la regina Wezna. “Su Zhalfir. È trascorso un mese dal tuo arrivo.”

“Un mese?” ripeté la Viandante. Abbassò la spada, gli occhi che cercavano nello spazio tra di loro qualcosa che solo lei poteva vedere. “Impossibile... Teferi, sei scomparso solo pochi giorni fa!”

“L’ancora ha ceduto,” rifletté Teferi. Come? La Pietra del Potere di Serra, il potenziale di un piano deviato attraverso di lui, qualcosa che aveva a che fare con il Sylex. Quello spazio in cui erano entrati lui e Urza dopo che era esploso... tutto quel potenziale doveva andare da qualche parte, doveva trovare qualcosa a cui aggrapparsi. Caso, destino o una combinazione dei due.

“Potremmo anche non vedere la fine della giornata,” sussurrò la Viandante. La sua forma vacillò, rabbrividendo. Stava perdendo la sua presa sul piano.

“Che intendi dire?” chiese la regina Wezna.

“L’invasione di Nuova Phyrexia è alle porte,” rispose la Viandante. Guardò la regina, poi Teferi. “Il nostro attacco è stato sbaragliato su tutto il piano, Nissa non c’è più... Temo che sia troppo tardi. Non credo che riusciremo a fermarli.”

Seguì un momento di gelo. Teferi fece un passo indietro, si allungò dietro di lui e si sedette per terra. Abbassò la testa e se la prese tra le mani. Tutt’intorno a lui, le tombe esplosero in azione. La regina gridò ordini ai tre leader del credo, che diedero a loro volta disposizioni ai loro attendenti e luogotenenti prima di affrettarsi a eseguire i loro ordini. La Viandante si accovacciò accanto a lui e cercò di raccontargli della battaglia alla Torre di Urza, dell’incursione su Nuova Phyrexia, dell’albero che cresceva, del piano disperato, ma la sua voce singhiozzava e balbettava, e la sua coerenza oscillava. Svanì, trascinata via dalla sua scintilla instabile.

Forse era la straordinaria acustica della camera a cupola, o qualche confortante incantesimo che aveva lanciato inconsciamente, ma tutto svanì di lato, come se l’ambiente intorno si spogliasse di un cappotto troppo pesante. La voce di Jabari echeggiò nella sua memoria. Basta chiedere scusa. Teferi allontanò le mani dal viso e si guardò i palmi. Sebbene li avesse lavati molte volte da quel giorno sulla strada, erano ancora tinti della terra rossa di Zhalfir. Non avrebbe mai potuto lavare via questa terra. Non sarebbe mai stato solo.

Eshe, che aveva resistito ai secoli.

Oyana, che affrontava il pericolo con coraggio.

Adia, che desiderava costruire un futuro di pace.

Subira, che l’aveva amato e che lui aveva amato.

Niambi, che l’amava e che lui amava.

Zhalfir, accanto a cui si schierava, padre dei credi, padre di una nazione.

“Non è troppo tardi,” disse Teferi, mentre un sorriso feroce gli si allargava sul viso. L’esplorazione del Multiverso da parte dei Phyrexiani aveva risvegliato qualcosa che le loro menti meccaniche avrebbero imparato a temere: Teferi, che avrebbe mostrato loro che il sole sorge a Zhalfir.