Il racconto precedente: Intrappolate

Dodici anni dopo aver visto morire i suoi genitori, Chandra Nalaar è tornata a casa, su Kaladesh. Ha scoperto che sua madre era sopravvissuta... ma Pia Nalaar, ora condottiera del movimento dei rinnegati, è stata arrestata dal Consolato governante, retto dal Planeswalker Tezzeret. Chandra è andata alla ricerca della madre, con l’aiuto di Nissa Revane e della Signora Pashiri, ma le tre si sono ritrovate intrappolate dal crudele Baral.

Rinchiuse in una cella resistente alla magia e piena di veleno, l’unica via di fuga è viaggiare tra i piani. Ma Chandra non vuole lasciare la Signora Pashiri... e Nissa scopre di non voler lasciare Chandra.


Era ancora abituato a utilizzare le mani. Questo è il motivo per cui è quasi caduto dall’ultimo tetto.

Le dita meccaniche realizzate da Nonna erano forti e sorprendentemente reattive. Era quasi come se indossasse dei guanti. Ma, come per una mano dentro un guanto, la loro presa era diversa. Doveva fare uno sforzo per ricordare di applicare una pressione minore quando afferrava un bicchiere e ancor di più quando saltava da un tetto a un altro.

Dopo che lo spostamento d’aria dovuto al suo passaggio svanì, dopo che i suoi piedi atterrarono silenziosamente sulla sbiadita polvere dei mattoni, sentì il suo peso spostarsi in modo irregolare. La cornice scivolò via. Le sue dita... quelle vere... strinsero all’interno dei guanti. Con silenziosa efficienza, le dita meccaniche si irrigidirono e affondarono nella muratura. Sentì l’equilibrio tornare e fece oscillare le gambe fino al bordo del tetto, con un fruscio del mantello mosso dal vento. Il cielo azzurro e le torreggianti nuvole pomeridiane gli passarono davanti agli occhi.

Tutto accadde in un istante.

Si fermò, ascoltò e fiutò il vento. Una decina di spezie aromatiche di cui non conosceva il nome mesi prima emanavano il loro aroma dalle cucine sottostanti. Ora le conosceva come cardamomo, curcumina, chiodi di garofano e altre. La maggior parte delle persone non avrebbe percepito altri aromi, per quanto queste erano forti. Sotto di loro, vide la pietra e l’ottone riscaldati dal sole, con gli odori stantii dell’olio esausto e il sudore di una decina di ispettori del Consolato.

Il ronzio mormorante delle ali dei totteri preposti alla sorveglianza pulsò dall’alto. Un rivolo di ghiaia scese dai fori lasciati dalle sue dita, sferragliando sul pavimento del vicolo.

Un fruscio di tessuti. "Questo luogo sta andando in rovina". La voce femminile di uno degli ispettori riecheggiò tra le pareti in mattoni e il pavimento di ciottoli. "I Consoli dovrebbero abbatterlo e ricostruirlo".

Un’altra voce, questa volta maschile: "Forse lo faranno. Ho sentito che i fondi per le opere urbane sono stati riservati alla costruzione di edifici per la Fiera...".

Soddisfatto per non aver trovato nulla di mancante, si avviò silenziosamente verso il lato lontano del tetto e diede un’occhiata alla parete sottostante. Balcone, balcone, grondaia, tendone... riuscirebbero a reggere il suo peso? Forse il lampione. Poi la parete e infine la strada. Dopo pochi istanti si trovò a terra, con le dita ricoperte di metallo che tenevano chiuso il mantello.

Guardò in basso, verso gli scintillanti guanti di ottone. Dalle sventolanti maniche del suo mantello, che si estendevano fino a oltre i gomiti, sporgevano solo le mani. Erano state forgiate dai Bracciolucenti, un gruppo specializzato nella realizzazione di quelle parti anatomiche. Nonna le aveva create per lui. Qua non avrebbero generato domande. Aveva realizzato il mantello lei stessa, utilizzando scaltri dispositivi che ruotavano e ticchettavano. "Ciò che indossi è uno strazio! Ti fa risaltare ancor di più nella folla". Lui reggeva le parti in seta per lei, rispondendo a domande su colore e trama con un rispettoso disinteresse.

Raddrizzò le spalle, si piegò in avanti e scivolò nella folla mormorante, in ascolto, incurante del pesante fetore del sudore.

"...che cosa stanno facendo...?".

"...dentro per un sacco di tempo...".

"...detto che i rinnegati stavano preparando delle trappole...".

"...papà, quando torniamo...?".

"...mai visti così tanti...".

Dall’ombra sotto il suo mantello, osservò i meccanismi in movimento dei totteri e i ritmi irregolari degli umani e dei vedalken nelle uniformi da ispettori del Consolato. L’edificio di Nonna era circondato.

Scivolò in un altro vicolo e risalì sul tetto. Si appoggiò a una capanna piena di attrezzi da giardino, per rivivere i ricordi. Quello dorato passava sul retro ogni venti secondi, quello arancione passava dietro all’edificio ogni quaranta... gli aromi del giardino di spezie dei residenti gli riempirono le narici.

Si poteva fare.

Attese, ascoltando i battito dei totteri che scendevano dall’alto.

Ora.

Si mosse, si lanciò dal tetto e se ne andò.

All’atterraggio, i suoi polmoni si svuotarono d’aria.

Scattò e aggirò un lucernario e un comignolo.

Il battito delle ali tuonò di fianco alla costruzione in mattoni, coperto dall’eco. Pochi altri secondi.

L’edificio di Nonna era il più alto di quell’isolato. Si distese verso l’alto, spingendo i guanti metallici sopra la testa, con gli intensi colori blu e oro del mantello che schioccavano dietro di lui...

Le sue dita in ottone si chiusero sul bordo del cornicione del tetto. I suoi grandi stivali si appoggiarono delicatamente ai mattoni.

Grugnì... rumorosamente... e si sollevò.

Rimase disteso per alcuni istanti, respirando a bocca aperta, costringendo l’aria a fluire lentamente, sempre in attesa di un cambiamento nei movimenti dei totteri o di un grido dalla strada.

Nulla.

Nonna aveva una terrazza sul lato lontano dell’edificio, la quale si affacciava sulla torreggiante Guglia Eterea del Consolato. Lei utilizzava nomi tutti suoi per quell’edificio, tra i quali il più gentile era "pugno in un occhio” e il più scortese conteneva una serie crescente di sorprendentemente specifici riferimenti scatologici. Annusò l’aria oltre il bordo. Solo le sue orchidee; nulla che suggerisse la presenza immediata degli ispettori.

Scese silenziosamente tra le piante e si infilò nella sua casa. Perdonami l’intrusione.

Si accovacciò, in ascolto, mentre il vento ripiegava le tende sbiadite intorno a lui. Due voci. No... tre. Una con un tono di un freddo ordine. In fondo alla sala, nella sua camera da letto. Le camere erano state rovistate rozzamente, il contenuto dei vecchi cassetti di legno era stato sparso sul pavimento e i cuscini del divano erano stati sventrati.

Si mosse silenziosamente, attento a evitare di rimescolare il contenuto dei cassetti rovesciati, sempre ascoltando le conversazioni nell’altra stanza.

Una donna, con una voce profonda e seria: "Hai controllato quel cassetto?".

Un giovane uomo, lamentoso: "Ovvio che ho controllato il cassetto. Nulla".

Una terza voce, maschile e tagliente: "Ci deve essere qualcosa. Qualche prova. È stata al centro del movimento per più di dieci anni. Non poteva tenere tutti quei segreti solo nella sua testa. Perché voi due non... non so. Cercate di nuovo nel salotto".

Passi nella sala. "Hai sentito che Rashmi si è qualificata per la seconda fase?", disse il giovane uomo. L’aroma metallico dell’aria carica di etere si sparse dietro di loro. Armati, ovviamente. La voce si diresse verso il basso, "Non sembra un grande utilizzo di un vaso trasportatore".

"Devi pensare alle implicazioni a lungo termine", rispose la donna distrattamente. Vetri si frantumarono e saltellarono da sotto il suo stivale e le sfuggi un’imprecazione a voce bassa. "Oggi un vaso, domani i meccatitani...”.

Lui appoggiò con cura i piedi a terra, in modo da evitare eventuali rumori, e percorse la sala fino a giungere nel salotto. Gli ispettori erano uno di fianco all’altra e osservavano il disordine che avevano creato, nelle loro uniformi di colore rosso e arancione. Dalle loro cinture pendevano neri artefatti sibilanti di metallo.

"Hai visto il suo animaletto?", chiese il giovane uomo.

"Non ne ha nessuno", rispose la donna. "Lei è una forgiavita. Lo realizza lei stessa". Le sue mani coperte di cicatrici dipinsero la forma di un uccello in aria.

Lui si mosse rapidamente e silenziosamente, allargando le braccia come per cingere gli intrusi e il vento soffiò sotto il cappuccio del suo mantello.

Il ragazzo iniziò a voltarsi, aggrottando le sopracciglia. "... ma c’è del pelo bianco su tutto il divano".

La sua ombra era proiettata sul volto del ragazzo. Fece un piccolo movimento con le mani verso il fodero e gli occhi si spalancarono mentre mettevano a fuoco l’immagine.

Le mani coperte di metallo afferrarono le loro teste e le fecero sbattere l’una contro l’altra.

Sussultò all’impatto tra le ossa e osservò gli ispettori crollare in un ammasso di membra. Nessuno vi invidierà il mal di testa che avrete.

La voce del loro supervisore si udì dal fondo della sala. "Basani? Che cosa è stato?".

Si nascose vicino alla porta.

"Basani?". Passi risuonarono nella sala.

Sete di colore rosso e arancione. Metallo dorato. Tessuti di color avorio. Ancor prima di comporre quei colori sfocati in un uomo, le dita in ottone si erano già chiuse intorno al suo collo e lo avevano sollevato dal pavimento. I vecchi istinti.

L’uomo ansimò, con le dita che si agitavano verso gli strumenti alla sua cintura.

Diede un colpo all'artefatto con la mano libera, fece ruotare l’uomo e lo sbatté di schiena contro la parete più vicina. "Buongiorno".

L’uomo si afferrò la gola con le mani e la bocca si mosse senza emettere alcun suono.

"Vi porgo le mie scuse", gli disse, allentando leggermente la presa. "Queste non sono le mie solite mani". L’uomo ansimò per un attimo e il suo cattivo odore aumentò. "Sento in te l’odore della paura", continuò, inclinando la testa di lato. "Sei spaventato?".

"Sì", rantolò il supervisore, con gli occhi spalancati che cercavano di scorgere qualcosa tra le ombre del cappuccio.

"Bene", brontolò. Dopo un istante gli chiese, "Dove si trova Nonna Pashiri?".

"In custodia. Ora", lo guardò imbambolato come un pesce finito nell’insostenibile deserto sopra il suo mondo. "Intrappolata. Lei è una rinnegata".

Aveva sperato che lei fosse fuggita e che loro fossero qui per cercarla. Invece no, l’avevano presa e stavano cercando qualcosa per giustificare la cattura. "Che trappola?", chiese lui.

"Stava cercando. Qualcuno. Li. Abbiamo. Presi".

Evasivo. Sollevò il supervisore ancora più in alto. "Chi?".

"La condottiera. Dei rinnegati". L’uomo sussultò nella presa di lui, vicino a soffocare, e venne colto da spasmi di tosse.

Nonna parlava spesso della condottiera dei rinnegati, ma solo con uno pseudonimo. L’aveva incontrata una volta sola. Un donna dal portamento nobile, con sguardo distante e un carattere talmente forte da riuscire quasi a coprire il peso che portava sulle spalle.

"Dove si trova questa trappola?".

Il supervisore scosse la testa da entrambi i lati. "Non... non lo so!".

"Peccato".

I suoi occhi si spalancarono e le pupille sembrarono pozzi neri. "Mi vuoi. Uccidere?".

"Io non uccido". Colpì l’uomo alla testa con la mano libera, lasciandolo poi cadere a terra senza sensi. "Non più".

Tornò verso il terrazzo di Nonna e con attenzione spostò di lato le orchidee. Se cercassero di attirarla, lei lascerebbe l’edificio di propria iniziativa. Quello era un elemento che lui avrebbe potuto utilizzare. Chiuse gli occhi e inspirò.

L'aria era una cacofonia. Trovò la concentrazione e rimosse dalla mente le spezie, i metalli, la folla preoccupata e l’onnipresente aroma dei fumi di etere che vorticavano in tutta la città.

Laggiù.

Un semplice sussurro dalla strada sottostante; frutta estiva, rose, giacinto e miele. L’essenza floreale che Nonna utilizzava. Quasi impossibile da trovare, gli aveva detto lei con ostinato orgoglio. Ancora più impercettibile, l’olio dei macchinari e il caldo ottone dell’uccello meccanico che era appollaiato sulla sua spalla, intento a cantare messaggi in codice.

Il vicolo sul retro era al momento sgombro. Impossibile determinare per quanto lo sarebbe stato ancora. Saltò oltre la ringhiera e lasciò che l’aria gonfiasse il mantello di Nonna, atterrando più in basso.

Il leggero aroma lo guidò verso il sole calante. Si mosse con rapidità tra le strade sinuose, con le narici che si dilatavano a ogni respiro, mentre le colombe e gli ortotomi svolazzavano al suo passaggio.

Si trattava di un diverso tipo di giungla, ma lui era un segugio.


Sei mesi prima

Il ragazzo strizzò gli occhi, mettendosi le mani sugli occhi e contando. "Ichi, ni...".

Le risatine furono tutto intorno a lui e il terreno oscillò per il battere forte dei corpi che si sparpagliavano in tutte le direzioni. Si concentrò sui suoni, ascoltando i piedi che si appoggiavano sul legno e sui giunchi. Il suo udito era migliore di quello degli altri. "...san, shi...".

Non era bravo a quel gioco. Era il più piccolo e il più lento. Ma gli bastava prenderne uno solo. Solo uno e sarebbe stato sufficiente. Solo uno e gli altri avrebbero riso di loro invece che di lui. "...go, roku...".

Il rumore di uno schizzo? Sembrava che qualcuno fosse andato nel laghetto. Era come imbrogliare. Lui non poteva andare nel giardino. Non come gli altri. Quando gli altri uscivano per ridere sotto il sole, lui doveva rimanere sotto il portico e osservarli, ciondolando i suoi piedi nella fresca nebbiolina primaverile. "...shichi, hachi...".

Dovevano costruire regole apposta per lui. Ma lui era il più piccolo e il più lento. Di tanto. "...kyu, ju!".

Aprì gli occhi verso la splendente biblioteca, con il sole che batteva caldo e di un colore dorato attraverso le tende di carta, illuminando pile di libri e mucchi di pergamene fruscianti. "Tutti pronti, arrivo!", strillò. La prima azione fu di attraversare la porta verso il portico, alla ricerca del laghetto, strizzando gli occhi per la luce.

Solo una gru di passaggio, che sollevò la testa dall’acqua quando udì i suoi rumori. La nebbiolina del giardino si destò e si mosse spinta dal vento. Un tintinnio di legno risuonò dal tetto, prodotto dagli amuleti della pioggia che oscillavano. Petali di boccioli di rosa vorticarono intorno ai suoi piedi.

Si voltò e ritornò dentro la casa, grattandosi la testa e cercando di riflettere sui rumori di passi. Si trovava nella Sesta Biblioteca. Sembrava che la cugina Umeyo fosse andato alla Terza Biblioteca, ma Ume era gentile. Gli permetteva di gustarsi bocconi pungenti del suo ghiaccio tritato e gli accarezzava la testa prima di andare a dormire. Lei poteva avere la Terza Biblioteca e lui sarebbe andato da un’altra parte. Un posto come la Decima Biblioteca, dove andava di solito il grande fratello Hiroku, in quanto là si trovava il suo libro preferito, quello sui topi di campo e i corvi, e Hiro non era comunque particolarmente interessato a giocare a nascondino.

Percorse la sala a grandi passi, attraverso gli inclinati raggi dorati, cercando di essere più silenzioso possibile.

Una folata di vento entrò da destra, sbattendo le pareti di carta. L’entrata! Qualcuno doveva aver aperto la porta esterna.

Si voltò e spalancò la porta scorrevole. "Ti ho preso!", urlò.

La porta esterna era ancora chiusa. Un gigante dalla pelle chiara lo stava osservando. Sbatteva le palpebre su un occhio blu. "Sì, mi hai preso, piccolo cacciatore", brontolò.

Ora avrebbe dovuto salutare.

Gli avevano insegnato a inchinarsi e dire "Benvenuto nella nostra casa".

Qual è il vostro nome. Posso dare notizia del vostro arrivo. Avete viaggiato a lungo. Avete bisogno di pantofole.

I piedi del gigante erano più grandi della sua intera testa e terminavano con artigli della dimensione delle sue dita.

Il gigante si accovacciò davanti a lui, rimanendo comunque alto il doppio di lui. Aveva l’odore dell’erba d’estate e di strani alberi. Il suo occhio blu era contornato di rosso, come quello di Hiroku quando rimaneva sveglio per leggere fino a troppo tardi. Nella posizione dove ci sarebbe dovuto essere l’altro occhio si trovava una cicatrice. "Non penso che ci siamo mai incontrati", disse. I suoi denti erano appuntiti e ne aveva davvero troppi.

Dietro di lui si udirono dei passi, i quali fecero stridere le assi della sala, ma lui non spostò lo sguardo dal gigante, perché cosa avrebbe fatto se, una volta riportato lo sguardo su di lui, avesse trovato quei denti più vicini?

L’occhio del colore del cielo del gigante lo osservò dalla testa ai piedi. "Stai tremando".

"SIGNOR GATTO!". Sussultarono entrambi al grido dietro di lui. Era la voce della grande sorella Rumiyo. I passi si allontanarono nella sala. "Ma-maaaaa! il Signor Gatto è tornato!".

Il gigante guardò dietro di sé e sorrise. "Rumi è rumorosa come sempre". Fece un passo all’indietro e si sedette a gambe incrociate, appoggiando i polsi sulle ginocchia. Piegò la testa in avanti. "Queste mani non ti arrecheranno alcun danno".

Indietreggiò comunque di un passo.

"Nashi?".

Non aveva udito alcun passo, perché lei era grande e non toccava più il terreno, a meno che non lo volesse. Ma lui riusciva a sentire la sua ombra nella sala e si lanciò dietro le sue gambe. "Che cosa... ah. Bentornato su Kamigawa, amico mio", gli disse lei.

Lui fece spuntare il naso da dietro la seta color turchese delle vesti di lei. Il gigante dalla pelle chiara si era spostato dalla sua posizione seduta e si stava ora inchinando con grande rispetto. "Sono lieto di rivederti, Tamiyo".

Lei spostò lo sguardo dal gigante a lui e gli sorrise, sistemandosi una delle sue lunghe orecchie sopra una spalla. "Lui è Ajani. Fa parte del nostro circolo della storia". La voce di lei era come un vaso di porcellana, ammaliante e splendente. "Come Narset? Anche lui può camminare dietro l’aria".

Narset raccontava storie che si sviluppavano in lunghi e interminabili cerchi e si stendeva sul tetto per osservare le nuvole insieme a lui. Lei rideva a tutte le battute di lui e a nessuna delle sue parole. Le storie che piacevano di più a Narset erano quelle sui draghi.

Tamiyo gli appoggiò una mano sulla testa. "Ajani, ti presento Nashi. Lui fa ora parte della nostra famiglia".

Il gigante... Ajani... si inchinò di nuovo. "Hai il mio rispetto".

Lui rimase dietro le gambe di Tamiyo, ma ricambiò l’inchino, nel modo in cui lei gli aveva insegnato. "E tu hai...".

"SIGNOR GATTO!", una figura indistinta di color avorio gli sfrecciò davanti agli occhi.

Ajani fece uno scatto e riuscì di poco ad afferrarla tra le sue imponenti braccia. "Uff! Ciao, Rumi".

Il suo sorriso sdentato illuminò la stanza. "Sei stato via troppo a lungo". Dietro di lui, le assi della sala tuonarono, a causa dei fratelli e dei cugini che correvano, saltavano, saltellavano e, a volte, fluttuavano. Rumi si sollevò per scompigliare la pelliccia di Ajani. "Scommetto che hai delle storie stupendissime da raccontare!".

"Ajani è tornato!".

"Raccontaci di nuovo del drago!".

"Voglio sapere la storia del foro del mondo!".

I bambini lunantropi circondarono le gambe di Ajani, toccarono la sua pelliccia chiara, la sua enorme e lucente ascia e il lungo mantello bianco che indossava. Hiroku era il più alto, ma arrivava solo al petto del gigante. Rumi, ancora appollaiato sul suo braccio, guardava verso il basso e rimproverava gli altri.

Tamiyo batté le mani due volte. "Basta così!".

"... e questo è il motivo per cui mi devi ascoltare... oh". Quando il baccano terminò, fu la voce di Rumi a farsi sentire.

"Ajani è un ospite. Non è educato fargli tutte queste richieste". Tamiyo si portò le mani sullo stomaco e fece scendere Rumi a terra. "Lui ha viaggiato a lungo per renderci visita. Rumi, avvisa tuo padre di preparare un pasto di benvenuto. Voi altri potete dare una mano".

"Non se ne può andare prima di aver raccontato le sue storie", disse Rumi. Si mise a braccia incrociate e sollevò il mento. "Questa è una regola inviolabile, mama. Se parti per nuove avventure, le devi raccontare quando torni".

Tamiyo Guardò verso Ajani, con le labbra che disegnavano una linea severa e gli occhi che esprimevano un sorriso. "Ha preso da suo padre".

"Ovviamente", rispose educatamente il gigante. Spostò lo sguardo verso la folla sottostante e si mise una mano sul petto. "Nessuno andrà via senza aver raccontato una storia".

Tutti emisero dei lamenti, mentre uscivano dalla stanza.

"Andiamo, Nashi". La cugina Ume lo prese per mano, con gli occhi color lavanda spalancati e pieni di emozione. "Vieni a preparare le palle di riso con me".

"D’accordo", rispose lui, lasciandosi trascinare da lei. Diede ancora un’occhiata dietro di sé, mentre continuava a percorrere la sala con lei.

Tamiyo mise una mano sul braccio di Ajani. Aveva un’espressione che le aveva visto solo quando si rivolgeva a Genku la sera tardi, quando tutti gli altri erano andati a dormire. "Sei stato via per mesi", gli disse, con voce quasi impercettibile. "Dov’è Elspeth?".

Il collo del gigante si piegò come un salice sotto la pioggia. La luminosità nei suoi occhi svanì. "Lei... non verrà".

Ume girò l’angolo.


L’odore aveva costretto Ajani a bloccare altri ispettori.

Si appollaiò sul bordo di una splendente torre color avorio, mentre loro si davano da fare e smontavano con cura tutti i macchinari che trovavano. Come formiche, circondavano oggetti più grandi di loro, rimuovendone piccole parti che poi trasportavano e posizionavano in luoghi in cui nessuno le avrebbe più cercate.

Il miasma della battaglia era ancora percettibile; l’aroma onnipresente dell’etere e la polvere del metallo bruciato.

Sentì una leggera pressione sul retro del mantello, appena sufficiente per fargli capire che era la punta di una lama. "Ti sei perso?". Una voce femminile, musicale, impercettibilmente divertita.

Notevole. Non aveva né udito né odorato nulla. Chiunque fosse, non era un segugio alle prime armi.

Spostò il peso, lentamente, leggermente... "Pensi di saltare?". La punta della lama lo pungeva in modo giocoso. "Se vuoi la mia opinione, esistono modi più facili per morire. Se tra i flussi di etere danzi, nulla potrà potrai mai porsi a te innanzi".

Lui si rilassò. Era una frase che gli amici di Nonna utilizzavano per identificarsi a vicenda, un velato riferimento all’araldica utilizzata dai Consoli. Gli aveva offerto la giusta risposta. "Ma se ragioni con la tua mente", ruggì lui, "riuscirai a vivere più intensamente". Un riferimento all’inversione del simbolo da parte dei rinnegati.

"Ah, ottimo!", rimosse la lama. "Ti porgo le mie scuse, amico. Come puoi vedere, abbiamo avuto una giornata difficile".

Lui stava per voltarsi, quando un’elfa spuntò di fianco a lui, facendo ciondolare le gambe oltre il bordo del tetto. Aveva un aspetto quasi adulto, ma gli elfi potevano avere il suo aspetto e, nonostante ciò, essere molto più anziani di lui. Il suo abbigliamento era un insieme di colori viola scuro e grigio, decorati da un numero davvero eccessivo di tasche e cinture. Scure bande di metallo tenevano legata una cascata di trecce nere, che sciolte sarebbero scese fino alla vita. Aveva un profumo di mandorla, forte chai nero e sudore.

"Uno spettacolo notevole, vero?", fece un cenno agli ispettori sottostanti, continuando a ciondolare le gambe come una ragazzina irrequieta. Mezza decina di piccoli insetti metallici erano avvinghiati alle spalline del suo mantello; le ali di seta delle farfalle in ottone sbattevano in una scaltra imitazione della vita; i ragni di scuro acciaio temprato rimanevano immobili, ma con gli occhi che si muovevano in ogni direzione. Boccioli viventi, di colori viola e indaco, spuntavano dalle loro costole di metallo.

"Che cosa stanno cercando?", chiese lui.

"Chi lo sa?", rispose l’elfa, sbadatamente. "Trappole esplosive, magari su cui esplodere?", rispose con una risata acuta. "Questo sarebbe divertente, vero? Tutto questo tempo alla ricerca di qualcosa che nessuno di noi utilizzerebbe mai?". Si voltò e i suoi occhi di colore grigio argenteo si posarono su di lui. "Il mio nome è 'Lamadombra'. Tutto attaccato".

"Lamadombra?", ripeté lui, con incredulità.

Lei si mise a ridere. "Non è uno splendido nome in codice?".

"Io... credo di sì", rispose lui, diplomaticamente. Nonna aveva accennato a una forgiavita di talento, una degli elfi di Vahadar, che vivevano in città. L’aveva definita un prodigio, i cui insetti meccanici erano in grado di intrappolare e smontare i totteri della sorveglianza dei Consoli. Quando lui aveva chiesto a Nonna il nome di questa persona, lei aveva solo alzato gli occhi al cielo.

"L’ho inventato io, sai. Penso che suoni incredibilmente raffinato". Lei sbirciò sotto il mantello di lui e lui si voltò rapidamente, chiudendo la tunica con le sue mani color ottone. "Oh, un uomo misterioso, vero?", disse dandogli una gomitata su un fianco. "Ottimo stratagemma".

Lui si schiarì la gola. "Dove posso trovare Nonna?".

Il sorriso di lei svanì. Dopo un attimo, riprese a parlare, con voce più pacata... più vecchia. "Non ti so dire. Sono venuta qui alla ricerca della condottiera dei rinnegati. È in ritardo". Si portò una mano alla bocca e iniziò a mordicchiarsi un’unghia già corta. "Se fosse qui, penso... i Consoli potrebbero averli agguantati".

"Hai ragione. Ho chiesto a un ispettore che si trovava nella sua casa".

Uno dei suoi sopraccigli si sollevò. "Tu hai chiesto?".

"È stata necessaria un po’ di persuasione", rispose lui, stringendo uno dei guanti di metallo in un pugno. "Speravo di scoprire dove era stata portata Nonna. Gli ispettori hanno confuso le tracce".

"Uhm, uhm, uhm", disse Lamadombra in modo pensieroso. Lui sbatté le palpebre. Aveva davvero pronunciato quelle parole? "Qua vicino c’è un rifugio dei rinnegati. Chiunque sia riuscito a sfuggire alla confusione di questo pomeriggio sarà probabilmente nascosto laggiù. Andiamo a chiedere a loro".

Lui inclinò la testa. "Te ne sarei grato".

Lei balzò in piedi e si pulì il retro dei pantaloni. "Riesci a starmi dietro se salto da un tetto all’altro e roba simile?". La voce di lei era di nuovo squillante e la sua preoccupazione era una nuvola alta che era passata temporaneamente di fronte al sole.

Sotto il cappuccio, lui le offrì un sorriso. “Sfida accettata".

"Splendido". Si voltò verso una delle farfalle meccaniche sulle sue spalle e intonò sei note. A un orecchio normale, sarebbe potuto sembrare un richiamo per uccelli. L’insetto di metallo fluttuò lontano, seguendo un percorso irregolare sopra gli ispettori. "Per tenere d’occhio ciò che succede là sotto", disse ammiccando. "Andiamo". Saettò come un alce, balzando leggiadra fino al tetto vicino.

Nel tempo che lui impiegò ad alzarsi, lei era già a due edifici di distanza e stava cercando, senza riuscirci, di reprimere una risatina. Lui strizzò l’occhio per osservare le distanze da superare, con attenzione. Con un occhio, valutare le lunghe distanze era una questione di intuito, deduzione ed esperienza. Si mise in corsa, saltò e atterrò di fianco a lei.

I suoi occhi simili alla luce della luna si incurvarono in un sorriso. "Gambe forti, bene".

Lo guidò lungo i tetti scottati dal sole, sotto i fili delle lenzuola appese ad asciugare, intorno ai comignoli, sopra ammassi di detriti e di scale in rovina e a strade intasate da migliaia di vite brulicanti. Percorsero un cammino circolare, allontanandosi dal centro e poi riavvicinandosi. Bene. Significava che lei non si fidava del tutto di lui; chiunque non avesse la memoria e il senso dell’orientamento che aveva lui non sarebbe stato in grado di ritrovare la loro destinazione.

Scesero nell’ombra di un complesso di appartamenti, con il tetto sventrato e il piano superiore ricoperto da un scintillante lago di bassa acqua salmastra. Le pareti erano macchiate da colonne nere e verdi di vita lentamente divorante. Le luci dell’etere lungo le scale erano scure e fredde. Il suo occhio non aveva difficoltà in quell’oscurità, ma Lamadombra tirò fuori un bastone di un colore blu brillante da una delle sue tante tasche.

"Non sapevo che esistessero luoghi come questo", sussurrò in quel silenzio funebre. "Dall’alto, tutta Ghirapur sembra splendere".

"Machecavolo", rispose lei scorbuticamente.

Aveva davvero detto machecavolo. "Leggi molto?", le chiese.

Lei lo guardò confusa. "Un po’ troppo, mi diceva mia madre. Perché?".

"Nessun motivo particolare".

Il loro cammino era bloccato da una porta, chiusa da un complicato artefatto ronzante. "Sei mesi fa, questo isolato era ancora alimentato". Lamadombra si fermò, chiuse gli occhi e fece una rapida serie di movimenti a mezz’aria, prima di ripeterli sui comandi del meccanismo. Il ronzio si interruppe e la porta si spalancò. "Poi il Consolato ha deciso che questo era un 'quartiere sottoutilizzato'. Hanno rimosso l’alimentazione di etere per utilizzarne di più per la costruzione della Fiera". Le sue labbra di piegarono, mentre chiudeva la porta dietro di loro. "È divertente come il concetto di 'quartiere sottoutilizzato' sia stato casualmente applicato a quelli in cui vivono i rinnegati. Loro promettono che ridaranno l’alimentazione entro la fine del mese", disse alzando gli occhi al cielo.

Lui percepì l’odore della paura e della tensione ancor prima di udire i suoni della conversazione. Quando girarono l’angolo, i suoni si interruppero.

"Sono io", li salutò Lamadombra. "Qualcuno ha visto la Signora Pashiri oggi? Pensiamo che sia insieme alla condottiera dei rinnegati".

Un ragazzo vedalken apparve dal nulla e afferrò un braccio di Lamadombra. "Va...!", iniziò a dire.

"Lamadombra!", sibilò l’elfa.

Il vedalken indietreggiò e il suo sguardo passò dall’elfa al suo compagno con il mantello. "Uhm, sì. Signorina Ombra. Voglio dire, Lama. Signora. Sono... lieto che stiate bene". I suoi giovani occhi luccicarono di ammirazione.

L’elfa si gonfiò e appoggiò i pugni sui fianchi. "Nessun ispettore del Consolato riuscirà a sconfiggere l'astuta Lamadombra!", dichiarò.

"Chiedo scusa!", una donna umana dall’abbigliamento color oro e azzurro trasalì e spostò il peso sulla gamba sinistra. Aveva una chioma sontuosa... non liscia e lunga e non legata. Era alta e fiera. "Io ero con la condottiera dei rinnegati. Ci siamo separate e avrei dovuto incontrarla, quando...". Il tono della sua voce diminuì, divenne agitato e ci fu un odore di amaro sfinimento e aspra paura.

Lui fece un passo verso di lei, abbassando le spalle e chinandosi. "Ti prego. Puoi dirmi ciò che hai visto, signorina..?".

"Tamni", rispose lei. "Io, ehm... quando sono arrivata, lei era già stata circondata dal Consolato. Uno di loro la teneva stretta per un braccio. Aveva un arto finto. Non un’appendice, bensì una struttura al posto di un arto". Aggrottò la fronte e i suoi occhi andarono a ricordi lontani. "Solo tre dita. Di metallo scuro. Era illuminato da un colore viola invece del blu dell’etere. Sembrava... primitivo".

All’ombra del suo cappuccio, dove nessuno poteva vedere, la sua mascella si serrò. "E Nonna Pashiri?".

Tamni deglutì. "Anche lei si trovava laggiù, da un lato. Con tre altre donne che non conosco. Una aveva una chioma rossa, una aveva vesti nere e la terza era vestita di verde. Gli ispettori hanno portato via Pia... hanno portato via la condottiera dei rinnegati. Quegli stranieri hanno discusso per un minuto e poi quella vestita di nero se n’è andata. Pashiri ha portato le altre due da un’altra parte. Verso Kujar".

Kujar. Un quartiere ricco, ampio e verde, dimora di molti dei Consoli. Difficile da penetrare e con molte pattuglie. La sua presenza non sarebbe passata inosservata.

Lo sguardo di Tamni si abbassò. "Io ho solo... ho solo osservato". Pronunciò le parole con la testa china.

"Sei una guerriera?", le chiese lui.

"Una gue... no! No, io... io costruisco oggetti". Si mise a osservare le proprie dita bruciacchiate e consumate.

Valutò la possibilità di metterle una mano su una spalla, come supporto. Ma non lo fece... non la conosceva abbastanza da prendersi una tale confidenza. "Lanciarsi avventatamente in battaglia, impreparati, non è un gesto di coraggio. É un gesto sciocco. Porta solo alla morte". Parlò con tono basso, ma deciso. "La mia è conoscenza acquisita sul campo. Fidatevi di me".

"Io avrei dovuto fare...qualcosa", sussurrò, asciugandosi gli occhi con il dorso di una mano.

"Tu sei stata testimone. Tu hai raccontato la sua storia. Ora altri possono sapere ciò che devono fare". Si inchinò davanti a lei. "Ti ringrazio per questo".

Tamni non disse nulla e ritornò repentinamente nell’ombra.

"Questa è una scocciatura, vero?", disse Lamadombra. “Kujar è molto ampio. Grandi prati, alberi e simili. Molte mura e guardie. E tu dai nell’occhio, amico, anche se rimani incurvato". Si girò verso il ragazzo vedalken. "Dayal! Raduna le truppe".

Il sorriso di lui era accecante. "Subito, Signorina Lama!".

"Che cosa vuoi fare?", le chiese lui.

"Io sono la migliore forgiavita che incontrerai", gli rispose allegramente. "Ma non sono l’unica forgiavita". Dayal si mosse rapidamente nella stanza e scelse le persone con le bestie meccaniche appollaiate su di loro o di fianco a loro. "Io ho i miei insetti. Altri hanno uccelli, ratti, felini, serpenti, rane e anche qualche cane. Tu sei un gigante, ma qui a Ghirapur ci sono migliaia di piccole creazioni come le nostre".

Lui non aveva previsto di coinvolgere nessun altro in questi guai. "Posso seguire le tracce da solo".

L’elfa si mise a ridere. "Non ne dubito. Ma noi possiamo trovarla più in fretta. Qual è il detto? Molti occhi vedono meglio di uno o qualcosa di simile? Non ti preoccupare", cinguettò lei, avvolgendo un braccio intorno a quello di lui, "io rimarrò al tuo fianco. Ti terrò lontano dai guai. E...", fece una pausa e strinse il suo bicipite. "Se dovremo sfondare delle porte, lo lascerò fare a te".

Lo spazio di fronte a loro si riempì di giovani persone con delle meraviglie color ottone o verde silvestre, che si muovevano e ticchettavano. Nessuno degli amici di lei sembrava avere più di venti anni.

"Comunque, come hai conosciuto la Signora Pashiri?", gli chiese Lamadombra.

Lui valuto come rispondere. Quanto rivelare? "Mi sta aiutando a trovare un uomo. Un uomo pericoloso. Che forse sta lavorando con qualcuno di ancora più pericoloso".

"Uomo misterioso!", rise lei. "Mettiamoci al lavoro".


Sei mesi prima

Nashi si contorse sotto le assi, con i fianchi che graffiavano i travetti del pavimento.

Aveva trovato un’apertura nella parete della camera da letto, nascosta dietro il baule in cui avevano riposto i vestiti. I suoi fratelli e cugini non ci sarebbero entrati e, se Tamiyo e Genku lo avessero scoperto, non avrebbero detto nulla. Da quella posizione, era in grado di scivolare silenziosamente tra i piani inferiori della grande biblioteca, osservare l’esterno attraverso i fori dei nodi del legno, respirare e ascoltare, sentendo il legno premere e tenerlo al sicuro da ogni lato. Nessuno poteva vederlo in questa sua oscurità privata. A volte ci passava ore, portando con sé giocattoli e libri, ascoltando gli altri bambini che lo cercavano.

A volte era un vantaggio essere il più piccolo e il più lento.

Scivolò verso la sala da pranzo, dove Tamiyo e Genku si trovavano insieme al gigante. Gli aromi del cibo erano strani. Non solo il secco cibo marrone e verde che mangiavano di solito. VI erano anche unti oggetti rossi, con tracce di nero. Provò una sensazione strana nel petto e nel retro della gola, ma non riuscì a capirne il motivo. Si strinse il naso con una mano, respirò solo con la bocca e continuò ad avanzare.

Nell’angolo si trovava un foro, che gli permise di osservare l’intera stanza. Tamiyo era seduta sul suo solito cuscino a capotavola, mentre Genku era alla sua destra. Il gigante... Ajani... torreggiava all’altra estremità, cibandosi educatamente da un piatto coperto da cubetti marroni. Carne. Si ricordò della carne. Si sentì nauseato.

Genku si alzò e si inchinò di fronte ad Ajani. "Ci sono faccende di cui mi devo occupare. Vogliate scusarmi".

Il gigante sbatté le palpebre. "Oh. Naturalmente. Prego".

Genku si piegò e diede un bacio sulla fronte a Tamiyo. Lei sorrise e chiuse gli occhi, appoggiando brevemente la testa sul petto di lui, mentre braccia e dita si incrociarono come edera. "Abbi cura delle tue faccende", le disse lui. "Io mi occuperò dei bambini".

"Grazie", rispose lei. "Credo che i miei genitori siano già spossati". Genku raccolse i piatti e uscì, richiudendo la porta con un piede.

Il gigante aveva una posizione scomoda. Le campanelle tintinnarono. Nell’angolo della stanza più vicino a lui, la stufa a carbone in ceramica era ancora ardente. Quando Nashi la osservò, il suo cuore si mise a battere troppo velocemente e le sue dita si conficcarono nel legno, quindi si voltò di nuovo verso Tamiyo che osservava Ajani. I sigilli viola sulla fronte di lei erano pervasi da preoccupazione.

Quando il rumore dei passi di Genku svanì, lei parlò. "Sei andato su Theros alla ricerca di Elspeth. L’hai trovata?".

"Sì". Sembrava che Ajani volesse dire di più, ma non disse altro. Si guardò invece intorno e fece un cenno a un cumulo di bagagli, con uno spesso diario sopra. "Sono giunto in un momento inopportuno? Sembra che tu ti stia preparando per un viaggio".

"Conosci il piano di Innistrad?", gli chiese lui. Il gigante scosse la testa. "L’anno scorso ho passato alcuni mesi su quel piano, per studiarne la luna. È affascinante". Si piegò in avanti, con occhi spalancati e lucenti. "Tutta la magia del piano si curva verso di essa ed è influenzata dai suoi cicli. Anche molte delle sue creature...". Fece una pausa e armeggiò con il polsino della manica. "L’ultima volta che ho incontrato Jenrik... una persona di quel piano con cui lavoro... mi ha riportato delle anomale osservazioni. Modifiche nei percorsi del mana e delle maree. Vorrei andare a osservare gli effetti sulla vita".

"Capisco". Appoggiò le sue imponenti mani sul tavolo e le osservò.

"Ajani", gli disse, "se non sei aperto con me, perché sei venuto?".

Il gigante sospirò lentamente e sul suo volto si dipinse un grande peso. "Io... non ho visto Nashi l’ultima volta che sono venuto. Non è come i suoi fratelli".

Tamiyo sospirò, nel modo che era solita quando lei e Genku litigavano, e lui cercava di lasciarla ai suoi libri. "Nashi è un nezumi. Uno dei membri della gente dei ratti delle paludi".

Nashi si dimenò nel soffitto, cercando di ascoltare ma timoroso di sentire.

Tamiyo continuò, "Alcuni anni fa, il suo villaggio è stato bruciato da alcuni Planeswalker".

Il respiro di lui si bloccò.

"Bruciato? Perché?".

La stufa a carbone di fianco al gigante ardeva intensamente.

"Non lo so. Non con esattezza. È stato il volere di un Planeswalker criminale di nome Tezzeret. Voleva che loro si piegassero a lui. Voleva che loro fossero al servizio del suo consorzio."

Il carbone ardente emanava una luce rosso-dorata sul pavimento, danzante e intensa, in continua crescita, inghiottendo nell’oscurità tutto ciò che non illuminava. Si grattò su un fianco, nel punto in cui la sua pelliccia era irregolare. Dove la pelle era ancora rossa e frastagliata.

Doveva andare.

"Tezzeret? Ho sentito parlare di lui. Elspeth... lo ha incontrato su Mirrodin".

Doveva andare subito.

Chiuse gli occhi. Si spinse via dal foro. Indietreggiò nell’oscurità. Rotolò su un lato, sicuro che il battere forte del suo cuore sul soffitto avrebbe rivelato la sua presenza. Bang, bang, bang, bang...

"Lui lavorava con i nemici di lei. Era... due anni fa?".

Notte e stelle. Calore e dolore a ondate. Il tetto va a fuoco! Prendi il ragazzo! Esci!

Le capanne sono in fiamme. Tutto è caldo e luminoso, di un giallo vomitevole. Mama lo solleva. Corre. Dov’è papa? Fermati, dov’è papa? Non possiamo lasciare papa!

Uno schianto. Mama si ferma all’improvviso. Lui sbircia sopra il suo braccio. Le capanne sono crollate. La via di fuga è bloccata. Dietro di loro ci sono solo fiamme. Si solleva su due gambe, ruggendo alle stelle. I tetti scoppiano in fiamme e lui si trova davanti a loro, tra le scintille.

"Due anni? Impossibile, Ajani. Tezzeret è morto... tre anni fa, credo. Tradito dai suoi compagni. Il villaggio di Nashi, quelli che sono sopravvissuti, lo hanno ucciso. Un drago ha siglato un patto per il suo cadavere".

"... un drago?".

Corri e non ti voltare. La pelliccia di mama fuma intorno a quelle parole. Qualsiasi cosa tu senta, continua a correre.

Lo avvolge con le sue braccia e salta attraverso le fiamme. Lo spinge in avanti. Barcolla. Corri! Vai!

Lui corre. La sua pelle crepita a ogni passo, dolorosamente. Vuole sdraiarsi e sprofondare nel terreno. Il fango è fresco. Se riesce a seppellirsi, sarà al sicuro.

Un urlo. Lui si volta...

Mama è avvolta dalle fiamme, sollevata in aria da un uomo di fuoco. Sta urlando e si sta contorcendo in aria...

Ha l’odore della carne bruciata.

Singhiozza. Una volta sola. Non riesce a trattenersi.

La conversazione si fa silenziosa. Mette le mani sugli occhi e si curva su se stesso, sussultando nella segreta oscurità.

Uno strusciare di seta sotto di lui. La tranquilla voce di Tamiyo, appena fuori dal suo nascondiglio; "Vieni fuori, ti prego, Nashi". Lei spinge un pannello del soffitto, aprendogli un passaggio.

Deve correre. Nascondersi. Andare nel più piccolo e lontano angolo dei tunnel, finché non è più il più piccolo e il più lento e nessuno lo farà essere giocando a nascondino e nessuno riderà di lui e nessuno lo infastidirà per la sua pelliccia irregolare e la sua pelle sgraziata e dirà che è solo uno spregevole mostro.

La lunantropa sussurrò nel tunnel, una voce solo per lui. "Ti ricordi ciò che ti ho detto? Se vuoi, puoi venire a sederti insieme a me".

Rotolò nelle braccia di lei e affondò il volto nel suo petto. Mentre lei si muoveva e si metteva a sedere, sistemandolo nel suo grembo, il mondo continuò a barcollare. Calde braccia lo avvolsero. Si morse il labbro e cercò di rimanere fermo. Il gigante era là fuori. Era alto e forte e aveva denti grandi e probabilmente non aveva mai dovuto...

Lei appoggiò il mento sulla sua testa e iniziò a cullarlo. "Va tutto bene. Sei qui con me".

Le calde lacrime giunsero immediatamente e non si fermarono.

"Le azioni portano a conseguenze", disse Tamiyo ad Ajani. "A volte le persone come noi... dimenticano quanto sono grandi i loro piedi".


Un ortotomo meccanico, una simulazione innaturale di vita, scese verso il fumo oleoso di un banco. Il centro era in legno ricoperto di muschio, punteggiato di fiori; la struttura era di metallo color bianco e oro; le ali erano in seta dai colori intensi. Sbatté le ali, allargò le agili zampe in ottone e si posò delicatamente sull’ampia spalla di Ajani.

Osservò la piccola creatura sferica con perplessità, mentre pigolava con un ritmo regolare, come faceva anche l’uccello di ottone di Nonna. "Mi sta... parlando?".

"Mm?". Gli occhi dal colore della luna di Lamadombra si volsero verso di lui, con le sue guance piene di carne di pollo arrosto. "MM! MMF!", indicò l’uccello con lo spiedino vuoto e ingoiò parte di ciò che stava masticando. "Mihir!", disse a bocca mezza piena. Si sforzò per ingoiare di nuovo, batté forte sul proprio petto e gettò lo spiedino in un secchiello con altri stecchi di legno vuoti, vicino al banco da cui lo aveva acquistato.

"Acquistato" era una forzatura. Il proprietario del banco, un venerabile e imperscrutabile elfo, aveva osservato con un luccichio nel suo occhio uno dei ragni di Lamadombra che sfilava una moneta dalla borsa di uno degli ispettori del Consolato che era passato di fianco a loro e lo aveva depositato nella sua mano con un rigido e ticchettante inchino.

Si trovavano ai bordi di Kujar, in un mercato trafficato che lo divideva da un quartiere meno attraente. Un luogo, disse Lamadombra, in cui le persone giungevano per dimorarvi o alla ricerca di un intrattenimento, a seconda del lato da cui vi entravano. Lei sembrava sconfinatamente incantata dalle folle, indicava persone che conosceva e gli raccontava centinaia di affascinanti e irrilevanti fatti della storia di quella strada.

Lui aveva un forte mal di testa. Il dispositivo musicale installato sull'altro lato della piazza aveva cinguettato e blaterato senza sosta dal momento in cui erano arrivati, con le luci che proiettavano colori sgargianti sul selciato. Le note acute metalliche e i bassi che facevano tremare fino all’osso gli facevano dolere le orecchie.

Panharmonicon
Panarmonico | Illustrazione di Volkan Baga

"Quello è uno degli uccelli di Mihir. I codici sono quelli comuni. Brillante, vero?". Lamadombra sorrise e i suoi denti chiari si stagliarono in contrasto alla pelle scura. "Pashiri è stata vista venti minuti fa. Il Dhund".

"Bene", rispose lui, cercando di non urlare più forte del frastuono. "Che cos’è il Dhund?".

"Conosci il mercato notturno di Gonti?".

Lui annuì. Un segreto conosciuto da tutti; un luogo di scambi illegali, nella struttura di una vecchia centrale energetica... una reliquia del tempo prima dell’etere. In quel luogo si potevano trovare invenzioni dalla discutibile sicurezza e dalla dubbia moralità, in cambio del giusto prezzo o dei giusti favori.

"Il Dhund è il quartier generale dei Consoli ed è costruito sotto e attraverso il mercato di Gonti. Un labirinto di tunnel e di stanze. Condotti, fogne e simili. Da laggiù escono le loro spie e laggiù custodiscono i prigionieri importanti. Tutti terribilmente segreti, sai", disse ammiccando.

Una gilda di legislatori che opera nelle fogne, nascosta sotto i piedi di cittadini indecorosi. Tutto in questo mondo è al contrario. Volse lo sguardo verso il tramonto. "So come arrivare al mercato notturno da qui. Come posso entrare nel Dhund?".

Lamadombra apparve offesa. "Ti mostrerò un’entrata. Ne conosciamo alcune. Non sarà un problema".

Scosse la testa. "Tu non verrai".

La bocca di lei divenne una linea piatta e le sopracciglia si abbassarono. "Tu non puoi...!".

"Lamadombra", la interruppe, "questa era una trappola preparata per Nonna. Sarà più difficile uscire che entrare. Avremo bisogno di aiuto dall’esterno. Puoi trovarci un modo per uscire? Qualcosa di veloce. Di segreto".

Lei inspirò bruscamente e gli occhi scattarono ai mattoni della vicina parete e oltre. "Totteri", rispose lei, alzando lo sguardo. "Quelli del Consolato derivano da una produzione di massa. Stessi punti di forza, ma anche stessi punti deboli. La condottiera dei rinnegati mi ha mostrato come impadronirmi di uno di essi".

Lui la osservò gravemente. "Ti ha insegnato come manovrarne uno?".

"Diciamo quasi".

"Quasi andrà bene".

"Ecco", disse lei, toccando l’uccello meccanico sulla spalla di lui. Fischiò e cinguettò una lunga serie di note, che suonavano come due uccelli intenti a litigare. Sbatté le ali e rispose con un allegro pigolio. "Ora è tuo. Quando sarai vicino a una delle entrate del Dhund, volerà verso di essa".

"Grazie". Si voltò per andarsene, ma lei gli appoggiò una mano sulla spalla.

"Tu sei un amico della Signora Pashiri. Se non lo fossi, non ti avrebbe detto la frase per identificarti. Ora stai per entrare nelle fauci dei Consoli per lei". Alzò il mento e mise un pugno sul fianco. "Io ti dichiaro rinnegato. Chiunque dica diversamente dovrà vedersela con me. Ma tu non mi hai mai rivelato il tuo nome in codice. È proprio rude, se vuoi la mia opinione". Incrociò le braccia davanti al petto e si mise a battere un piede.

Lui sbatté le palpebre, confuso. "Io non ho... alcuni mi chiamano 'Gatto Bianco?'".

Lamadombra lo osservò in modo critico. "Non ha nulla di raffinato. Perché ti hanno dato quel nome?".

Lui rimase in silenzio. L’idea era sciocca. Ma l’elfa lo aveva aiutato, si era fidata di lui e non aveva chiesto nulla in cambio.

Lui si tirò indietro il cappuccio.

Gli occhi di lei si spalancarono come non mai. Lui poteva vedere i propri lineamenti riflessi in quegli occhi; la pelliccia bianca, l’occhio blu e l’occhio mancante, i baffi e l’ampio naso.

Poi lei sorrise. "È un peccato tener nascosto un volto così nobile".

Lui le fece un inchino; non nel modo di Kaladesh, ma nel modo che utilizzava su Naya in gioventù. Queste persone erano gentili, ma anche molto strane. "Sono nelle tue mani, Lamadombra". Rimise il cappuccio sopra la testa.

"Vatti".

Lui si voltò di nuovo verso di lei. "Come?".

Lei rispose con un sorriso sbilenco. "Questo è il mio nome quotidiano. Vatti. Tu hai offerto un segreto a me. È giusto. Ora abbi cura di quell’uccello. Mihir lo rivorrà indietro e io non voglio avere debiti con lui". Lei si voltò e risalì rapidamente un condotto di scarico.

Lui si voltò e analizzò la parete più vicina, flettendo le mani con i guanti in ottone.

Davanzale. Mattoni. Grondaia. Collegamento all'edificio vicino attraverso una tubazione di etere di un blu sbiadito.

Il cammino era visibile ai suoi occhi, chiaro come una felce spezzata o come un’impronta su un argine.

Saltò verso l’alto, spingendosi con la punta dei piedi e appoggiandosi negli spazi tra i mattoni con le dita di metallo e assicurando la posizione intorno al ferro lavorato. L’uccello meccanico emise un leggero squark e si strinse alla sua spalla.

Corse lungo la tubazione di etere, mentre i fumi del cibo dell’elfa si incurvarono e turbinarono al suo passaggio.

Poi giunse il vento.

Gli odori della città gli invasero le narici. Il fresco dell’ombra e il calore delle zone illuminate dal sole passarono e proseguirono. I suoi movimenti divennero istintivi.

Schivò un comignolo o forse era un albero.

I luoghi che attraversò erano un insieme di ottone e marmo bianco. Non li conosceva. Non era necessario.

Oltrepassò un vicolo con un balzo o forse era una voragine.

Sapeva come correre. Il calore nelle gambe, la sensazione pungente nei polmoni, il sole sulle spalle... tutti vecchi amici. Una lunga gioventù di corse sulle pianure e nella giungla, veloce e silenzioso come un fulmine.

Diede un colpo sul dorso di un grande uccello... o forse era un tottero... e lo utilizzò per saltare fino a un piano più elevato o forse un tetto.

L’uccello meccanico emise un breve e leggero perp. Si fermò un attimo, respirando profondamente. "Da che parte?", chiese espirando. Il suo accompagnatore spiegò le ali e volò via.

Erano giunti sul bordo del mercato notturno e gli odori della città erano svaniti per lasciare il posto a grasso, etere, ruggine e documenti troppo a lungo conservati in una cantina. Oltre la prima fila di edifici, risuonava il disordinato e afoso ruggito della folla.

L’uccello si appollaiò su un mucchio di legname scheggiato e macchiato d’olio, voltandosi a destra e a sinistra. Emise di nuovo un perp.

Dietro la catasta si trovava una porta. Era chiusa con un dispositivo, simile a quello del rifugio dei rinnegati.

Saltò fino al terreno, atterrando in una nuvola di polvere arsa dal sole. La creatura meccanica gli cinguettò... non come un uccello, ma nel dialogo in codice che aveva utilizzato prima. Fluttuò fino al chiavistello, con le sue piccole ali confuse e scattanti, e premette una serie di blocchi sulla superficie con il sottile becco. L’impercettibile ronzio della carica di etere svanì e la porta si spalancò.

"Grazie", sussurrò all’uccello. Emise di nuovo il suo verso, poi saettò via.

Penetrò nella fresca ombra.

Una figura color cremisi si avvicinò dalla parete e la luce del sole illuminò il bianco splendente di una lama. "Dove pensi...".

All’interno dei guanti, le sue mani si piegarono in zampe. Colpì la guardia col dorso di una mano, mandandola a sbattere contro la parete, e sentì un improvviso odore di sangue. "Scusami", borbottò al corpo privo di sensi.

Continuò a camminare nei tunnel illuminati di blu, allontanandosi dalla guardia, con le narici spalancate. Scoprì il cappuccio del mantello di Nonna e le sue orecchie iniziarono a muoversi in tutte le direzioni, alla ricerca di rumori di passi.

Il Dhund era colmo di aromi sgradevoli. Sudore stantio, urina stucchevole, troppe persone relegate in uno spazio troppo stretto. Puzzava di disperazione e delle persone scomparse. Di denti nell’oscurità.

Laggiù. Impercettibile, da un tunnel a sinistra. Frutta estiva, rose, giacinto e miele.

Sfrecciò nei tunnel, seguendo il profumo del suo salotto immerso nei raggi di sole, girando intorno a rumori di passi e borbottii.

Si ritrovò di fronte uno spazio aperto. La luce blu e bianca del sole del pomeriggio.

Arrestò la sua corsa ed esaminò l’aria. Sussurri, modificati e frantumati da troppe eco per essere comprensibili. Profondi lamenti di metallo e un sibilo sconosciuto. Stivali su pietra. Una smorzata serie di colpi.

Avanzò con cautela.

La stanza era composta da cerchi. Anelli in ottone si estendevano dal pavimento al soffitto a volta, connessi da archi di passerelle. Finestre ovali appena sotto le gronde lasciavano penetrare la luce dall’alto.

La stanza aveva l’odore di Nonna, ma lei non c’era.

Vicino al centro della stanza, due guardie in uniformi color cremisi e oro ignoravano scrupolosamente una specie di... scatola. Un tozzo metallo scuro, che soffiava e sussurrava in modo sgradevole. C’era un odore che non riuscì a riconoscere, un qualcosa di dolce e biliare che percepiva sul retro della lingua. Poteva vedere una porta a una delle estremità, con una piccola finestra.

Un pugno colpì il vetro. Poi una mano, debolmente.

Non riusciva a vedere i volti dalla sua posizione. Non ne aveva bisogno.

La mano scivolò verso il basso.


Cinque mesi prima

Avevano chiuso la maggior parte delle porte. Le nuvole erano torreggianti e grigie, un ammasso di cotone fradicio che trasportava l’aroma della pioggia.

Ajani aveva sparso i suoi oggetti sul pavimento. Un mantello bianco, un’armatura di bronzo, la sua enorme arma. Nashi sbirciò dalla porta, mentre il gigante arrotolava con cura il suo futon per la terza volta. Ogni giorno aveva bisogno di diversi tentativi; le sue mani erano troppo grandi e i movimenti ancora strani. Ume e Hiro si erano proposti di aiutarlo. Rumi aveva alzato le braccia ed era uscita nel giardino posteriore. Stava facendo le capriole nella nebbia esattamente nel modo in cui Tamiyo le aveva detto di non fare, le sue vesti erano un ammasso fradicio e perle d’acqua colavano dal naso e dalle orecchie quando rideva.

Tamiyo era partita la settimana precedente, raccomandandosi di aver cura di Ajani mentre lei doveva osservare la luna di qualcun altro.

Il gigante si inginocchiò, ripiegando, legando e avvolgendo con pazienza.

"Se lo desideri, puoi entrare, Nashi", disse.

Entrò nella stanza e si diresse verso l’ascia del gigante. Era strana; scura a un’estremità e luminosa all’altra. Si chiese se ciò avesse un significato.

Con attenzione, premette con un dito contro il bordo della lama scintillante. Sembrava spessa. Innocua. Il gigante alzò lo sguardo.

"Non dovrebbe essere più affilata?", chiese Nashi.

"Non è necessario. La velocità la rende tagliente. Il peso".

Premette con maggiore forza.

"Fai attenzione. Non è completamente smussata". Il gigante sollevò il futon arrotolato e lo mise in un armadio.

Si sedette e osservò il volto scolpito su un lato della lama, un volto felino con denti visibili e una lunga barba fina. "Stai per partire, vero?".

"Sì", rispose.

"Dove andrai?".

Il gigante lo studiò. "Vado alla ricerca dell’uomo che ha ucciso la tua famiglia. I nostri amici lo hanno trovato in un luogo chiamato Kaladesh. Qualcuno gli ha offerto denaro e segreti. Lui li ha utilizzati per ottenere una posizione di potere".

Nashi si grattò un fianco, dove la pelliccia era strana. "L’ho visto, sai. Dove gli sciamani lo hanno ucciso. Era nei boschi. A osservare".

Il gigante sospirò. "Non avrebbero dovuto lasciarti rimanere a guardare".

Sbatté le palpebre. "Hanno detto che era importante".

"Importante?". Ajani iniziò a legare le piastre dell’armatura.

"Sì. Perché ci aveva fatto del male. Dovevamo vedere la giustizia. Era una questione di onore, quindi dovevamo assistere. Hanno detto così". Il cielo tuonò. Si stropicciò il naso. "Aveva un braccio strano. Un altro uomo glielo ha tagliato. Quando quell’uomo ha parlato, le sue parole non avevano senso e la mia testa mi ha fatto male".

Il gigante sollevò la sua arma e la infilò nelle cinghie dietro la schiena. Il bordo della lama scura scintillò freddamente.

"Lo ucciderai?", chiese Nashi.

Si alzò una folata di vento, che fece risuonare i gingilli del portico. "Io... non lo so". Il gigante guardò all’esterno, appoggiando la mano sul mantello bianco. L’intero mondo aveva l’odore di acqua in sospensione, immobile. "Forse è il cammino giusto, dopo tutto. Troppi non fanno caso a dove si muovono".

Ajani afferrò il mantello bianco con entrambe le mani. Era scolorito in alcuni punti, di color rosa come petali di boccioli di ciliegio. Se lo portò al viso e inspirò, profondamente.

Illustrazione di Volta Creation

"Questo ti rende triste?", chiese Nashi.

"Che cosa? No". Il gigante sbatté le palpebre e si raddrizzò, passandosi un pollice sotto l’occhio. "Questo apparteneva a un’amica. Elspeth. È un ricordo di lei".

"Dove si trova?".

"Lei...", il gigante passò una mano sul tessuto. Nashi notò che il suo occhio era come il cielo. Il blu era diventato grigio, come rannuvolato. "... io l’ho persa".

Oh. "Nel modo in cui io ho perso i miei genitori, vuoi dire".

Il gigante chiuse il suo grande e splendente occhio. "Sì".

Nashi deglutì e osservò le nuvole torreggianti all’esterno. "Lei è morta".

Il gigante venne investito da un fremito. "Sì", rispose a voce bassa. Un calore si propagò dalla sua cicatrice. "Elspeth è morta".

Il cielo brontolò. Rumi stava urlando riguardo qualcosa nel giardino posteriore. Cercò di ricordare ciò che gli avevano detto gli sciamani, quando mama e papa morirono, ma non riuscì a ricordare molto. Tutto sembrava come la nebbia del giardino, insensibile, fredda e vicina. Aveva osservato l’uomo che aveva causato tutto tossire sangue e fango e non aveva provato nulla. Nausea, forse.

Non aveva provato nulla per molto tempo. Rabbia, a volte. Come quando le persone dicevano che lui doveva chiamarle mamma o papà. C’erano state molte persone così. Non si ricordava molto di loro. Finché non era giunta la ragazza lunantropa dalla biblioteca a chiedere della sua storia e a raccontarle la sua in cambio. "Puoi chiamarmi Tamiyo", gli aveva detto. "Nulla di più".

Il vento fece vorticare i petali dei fiori sul portico. Tirò fuori un piede e ne bloccò uno sotto le dita. “Tamiyo dice che, quando perdi qualcuno, è come quando ti fai male. Voglio dire come quando cadi e ti fai male. Quando ti graffi un ginocchio, sanguina e guarisce. Ha detto che le lacrime sono il modo attraverso cui il cuore guarisce. Devi lasciarle uscire, in modo da guarire".

La mascella del gigante si increspò. "Tamiyo è saggia".

"Quando sono triste, si siede accanto a me. Forse io posso sedermi accanto a te?".

"Penso che mi farebbe bene".

Il gigante piegò le gambe sotto di sé al bordo del portico, dove terminava la biblioteca e iniziava il cielo. Appoggiò la sua ascia sul legno di fianco a sé. Nashi si sedette dall’altro lato, ciondolando i piedi nelle nuvole. Il blu del cielo era quasi svanito. In lontananza si udì un mormorio.

Appoggiò la testa contro la spalla di Ajani. Le sue braccia erano grandi come tronchi d’albero. "Vuoi parlarmi della tua amica?".

Il gigante non disse nulla.

"Non sei obbligato".

Le nuvole da pioggia lampeggiarono e tuonarono. Allargò i baffi al vento.

"Era nata in un luogo oscuro", disse il gigante. "Non ne parlava mai molto. Una terra divorata dal male e su cui regnavano creature mostruose. Un tipo di creature che non uccidono. Un tipo di creature che cerca di dominarti. L’hanno ferita finché ha fatto parte del sistema in cui ferivano le altre creature. Ha resistito, pianto e sognato. Fino al giorno in cui sono venuti per lei. Era tra i loro artigli nel momento in cui ha deciso di andarsene".

"Poteva camminare dietro l’aria", chiese Nashi. "Come te e Tamiyo".

Il gigante annuì. "Si è risvegliata su una terra diversa. Era più luminosa, con un cielo pieno di stelle di vari colori che scorrazzavano e roteavano. Ma era molto giovane e quel mondo... non era molto gentile nei confronti di chi era diverso. Lo attraversò, finché non arrivò a un luogo in cui il sole era caldo e le persone erano gentili. Le offrirono cibo, la accolsero nella loro dimora e le furono vicini finché le sue paure non svanirono. Rimase con loro molti anni. Le insegnarono a proteggere se stessa, poi a proteggere gli altri e infine a guarire coloro che non erano stati protetti".

Una pallida mano si appoggiò sull’altro braccio del gigante. Hiroku era entrato silenziosamente, come faceva sempre, e osservava le nuvole una sopra l’altra.

"L’ho incontrata in quel momento, per la prima volta, mentre il mondo stava cambiando. Mi ha salvato la vita. Era anche il mio mondo, in un certo senso, e abbiamo combattuto insieme per salvarlo. Ma la terra che era diventata la sua patria era piena di cicatrici e tormentata dalla battaglia e ciò che lei riusciva a vedere era solo ciò che era stata. Continuò nella sua avventura, finché non dimenticò la migliore versione di se stessa...".

La voce del gigante si spense e il suo occhio osservò l’orizzonte. Alla distanza vi era una nebbia, grigia e informe. "L’abbiamo cercata. Io e gli altri. I mostri della sua infanzia erano tornati. Avevano abbandonato il loro tetro reame. Un altro mondo era sotto la loro minaccia, un luogo splendente e radioso. Lei è andata a combatterli".

Ajani si fermò. Osservò l’ascia che aveva di fianco. "Non riesco a immaginare", continuò, "ciò che si possa provare nell’affrontare gli incubi della propria infanzia. Vederli con gli occhi da adulto e comprendere che sono reali. Reali e famelici. Lei è andata dritta verso le loro fauci, con un cuore tremante e mani salde. Li ha combattuti finché non aveva altro da offrire, finché non aveva più alcuna ragione di combattere, finché tutto in quella terra splendente non divenne nero. I mostri vinsero. E lei fuggì di nuovo".

La cugina Ume si inginocchiò con leggiadria e un fruscio di seta, piegandosi come un origami di un cigno. Appoggiò una mano sul ginocchio del gigante, con gli occhi luminosi color lavanda.

"Lei è tornata nella terra del cielo di tanti colori. Nel luogo dove ci siamo incontrati di nuovo. In quella terra, è diventata un’eroina rinomata e una famigerata malvagia, portatrice di un’arma plasmata da... da coloro che si ritengono superiori a noi". Un’ombra passò sul volto del gigante e se ne andò rapidamente. "Era accaduto qualcosa. Qualcosa non funzionava più dentro di lei. Non ne parlò mai, ma era chiaramente visibile. Camminava come se fosse controvento, con le spalle curve e lo sguardo mai del tutto in avanti.

"Quella terra era vicina alla sua fine. Per i suoi cosiddetti mostri siamo andati fino ai confini del mondo e siamo giunti alle stelle. Abbiamo combattuto e sconfitto uno di quei mostri. E come ringraziamento...", strinse le mani sulle ginocchia, con i grandi artigli neri che penetravano. "Come ringraziamento, un altro di quei mostri l’ha uccisa. Proprio... proprio davanti a me. E io non ho potuto fare nulla. Nulla".

Dietro di loro, Rumi stava fiutando. Aveva le sue vesti fradicie, un aspetto imbarazzato e trafficava con un orecchio. Si spostava da un piede all’altro e osservava la porta e la via di fuga. "Sciocca", disse a se stessa a bassa voce... o forse lo immaginò lui... e si sistemò bruscamente sulle ampie spalle del gigante, stringendolo forte al collo e affondando il naso nella sua pelliccia.

Ajani non alzò lo sguardo, ma appoggiò una delle sue grandi mani su quelle piccole e slanciate di lei. "Sono andato tra le persone", disse. "Ho raccontato la sua storia, nel modo in cui sono stato testimone. Dovevano sapere. Dovevano ricordare. Doveva avere importanza. Ho viaggiato, ho raccontato e non mi sono fermato finché le parole non hanno attecchito e iniziato a diffondersi. Era importante. E come effetto... non avrei dovuto pensare".

Ora si trovavano tutti intorno a lui, ad ascoltare la storia in silenzio. La cugina Ume. Il grande fratello Hiro, la grande sorella Rumi. Il cielo si illuminò, si aprì e tuonò.

"Nelle storie che racconta il mio popolo... le vecchie storie, le storie che hanno importanza... l’eroe perde il suo maestro. Vive, piange e si riprende per salvare il mondo".

Le nuvole brontolarono. Gli amuleti della pioggia oscillarono e danzarono appesi ai loro fili. Nashi non sapeva ciò che Tamiyo avrebbe detto, quindi rimase in silenzio. A volte Tamiyo non diceva nulla ed era la risposta giusta.

Infine, Ajani sussurrò, "Sarebbe dovuto toccare a me. Non a lei".

Le sue grandi mani stavano tremando. Gli affilati artigli nascosti, i lunghi denti, le braccia come tronchi d’albero.

"Il mio eroe è morto", disse con voce rauca. "Tutto ciò che aveva desiderato, tutto ciò per cui aveva combattuto... era semplicemente una casa. Nulla di più semplice. Il desiderio più semplice".

Nashi mise le sue braccia intorno al gigante, ma non riuscì ad arrivare neanche a metà. "Sfogarti va bene", gli disse. "Siamo qui con te".

Le spalle di Ajani si piegarono e sussultarono. Si coprì gli occhi con una mano.

La pioggia iniziò a scendere.

I ragazzini rimasero seduti con lui, intorno a lui, una foresta di mani sulle sue spalle, braccia, schiena e ginocchia. Senza dire nulla. Solo respirando.

Piovve a lungo.


Un pugno colpì il vetro. Poi una mano, debolmente.

Non riusciva a vedere i volti dalla sua posizione. Non ne aveva bisogno.

La mano scivolò verso il basso.

Li stavano uccidendo.

Come

Lo stanno facendo lentamente.

Possono

Facendoli soffrire.

Osare

Ajani saltò la ringhiera, mostrando le zanne.

Il mantello di Nonna scivolava dalle spalle in combattimento, scoprendo il bianco sottostante.

Afferrò i lacci con la mano artificiale. Si sciolsero e cascarono.

Saettò in aria come un fulmine estivo, intenso e silenzioso.

Era come se l’ascia non si fosse mai separata dalle sue mani.

Corse a perdifiato, in una sconfinata caduta in avanti.

Da qualche parte dietro di lui udì cadere dei guanti a terra.

Un uomo lo stava osservando terrorizzato. Chioma nera. Baffi sottili. Occhi marroni. Un’ondata di paura puzzolente e fradicia emerse da lui.

Ajani mirò alla gola.

A volte le persone come noi... dimenticano quanto sono grandi i loro piedi.

Un’antica magia si destò e lo permeò lungo la schiena. Come aveva fatto con Tenoch, molte lune fa; in una vita da tempo abbandonata, che ora sembrava il racconto di un uomo diverso. La guardia spalancò gli occhi, neri pozzi di paura, e Ajani li superò, alla ricerca della titanica luce che giaceva dietro di essi.

Per un istante che sembrò non terminare mai, tenne nel palmo della mano il palazzo splendente dell’anima di quell’uomo e lo valutò.

Una gioventù trascorsa sentendosi fuori luogo, vedendo colori grigi dove gli altri vedevano colori brillanti. I ricordi di un padre deluso; "Temo che sia solo un inventore". Una vita dietro agli altri, in attesa che accadesse qualcosa. L’amore per una moglie con una lunga treccia e dita sempre bruciate. Un figlio che scoppia a ridere quando lui fa le boccacce. Mattine in piedi, dal sorgere del sole, intento a riempire un’angusta cucina con aromi di pane e spezie.

Un fiocco di neve con un miliardo di sfaccettature scintillanti. A destra e a sinistra, sepolte in crepacci colmi di vergogna, si trovavano forme contorte, sì, momenti oscuri... gesti vergognosi che non sarebbero state rimosse neanche in una vita di tentativi.

Ma molti meno di quelli presenti nell’anima di Ajani.

Non un Planeswalker. Non un malvagio.

Un semplice uomo.

Ajani spostò un piede e cambiò l’angolo di caduta della lama della sua ascia.

Sbatté contro il pettorale della guardia, spargendo frammenti contorti di metallo sul pavimento di marmo. Crollò a terra, rotolando per l’intensità del colpo.

Niente sangue.

L’altra guardia barcollò all’indietro, con dita nervose che liberarono la spada sbatacchiando. Roteando, Ajani gli lanciò una lunga occhiataccia, appoggiando l’oscura lama della sua ascia sul marmo con un leggero clink.

L’uomo lasciò andare la spada e scattò verso la porta. Avrebbe fatto suonare l’allarme. Non aveva molto tempo.

Ajani osservò i comandi della prigione. Leve e indicatori, manopole e luci lampeggianti. Non aveva alcun senso per lui. Non importa.

Fece abbattere la lama chiara della sua ascia nella fessura tra la porta e la prigione. Con un grugnito, vi appoggiò il peso e premette. Respiro dopo respiro, passo dopo passo, con braccia e gambe rigide e tremanti dallo sforzo, riuscì ad aprire quella macchina stridula.

La porta uscì dai cardini con un tonfo risonante e una nube di fumo verde salì verso l’alto.

Un’elfa dagli occhi color smeraldo era seduta a gambe incrociate di fronte a lui e teneva in grembo una ragazza dai capelli rossi priva di sensi. "La signora Pashiri?", le chiese.

L’elfa fece un cenno dietro di sé, "Laggiù". Sollevò la ragazza dai capelli rossi come se non avesse peso e si fece di lato per lasciarlo entrare. Gli occhi di lei si allontanarono da quelli di lui. "Io... ho fatto ciò che ho potuto".

Nonna aveva gli occhi chiusi e respirava appena. La sua espressione era serena e le sue mani erano appoggiate sullo stomaco. Come quando, ogni pomeriggio, la trovava a sonnecchiare sul divano del salotto. Il riposo di una vita vissuta.

Quando uscì dalla camera con lei, vide la ragazza con i capelli rossi muoversi tra le braccia dell’elfa. Tossiva debolmente e sbatteva le palpebre. "Nissa", gracchiò. "Mi fai scendere?".

Appoggiò con cura la Signora Pashiri sul pavimento di marmo e le sue ciocche argentee si stesero di fianco a lei. Appoggiò una mano sul suo stomaco e chiuse gli occhi. Il veleno salmastro era penetrato nei polmoni e nelle vene, inspessendo il sangue e rendendolo asciutto come cenere. Inviò fili brillanti di magia dentro di lei, rimuovendo il nero e riempiendo il suo sangue con aria pulita.

Lei sbatté le palpebre e tossì. Lui la aiutò a mettersi a sedere. "Stai bene?", chiese lui delicatamente.

"Ajani", gli sorrise. Poi strizzò gli occhi e gli lanciò uno sguardo di disapprovazione. "Sei dimagrito". Gli diede una pacca sulla guancia. "Non hai mangiato in modo corretto?".

Lui si schiarì la gola, cercando di mantenere la calma. "Sì, Nonna".

"Ma che dia...", ansimò la ragazza dai capelli rossi, tossendo di nuovo, una tosse asciutta e secca. Lui alzò lo sguardo e la vide afferrare un braccio dell’elfa per reggersi sulle ginocchia tremanti, mentre i colpi di tosse crescevano di intensità e la costringevano a rimanere piegata in due. Una goccia di sangue apparve sul lato della bocca.

Nissa inspirò bruscamente alla vista e le massaggiò la schiena. "Mettiti seduta", le disse, con strani occhi velati di preoccupazione. "Ti prego, Chandra".

"È solo tosse", disse la ragazza dai capelli rossi con voce stridula. "Starò bene tra un...". Esplose in un altro attacco di tosse, ricoprendo il pavimento di rosso. "Oh. Questo non va bene...".

Ajani aiutò la Signora Pashiri ad alzarsi, con delicatezza. "Scusami", le disse, per poi voltarsi verso le altre due donne. "Tienila sollevata". L’elfa annuì e sollevò Chandra.

"Ehi, gattone", ansimò Chandra. Il suo respiro aveva l’odore di rame rovente. "Le tue braccia sono come quelle di Gid".

Lui si chiese che cosa fosse questo Gid. Le appoggiò una mano sulla spalla e chiuse gli occhi.

Il battito del suo cuore era assordante. Forte, pressante. Non sorprendeva che il veleno fosse penetrato nel suo sangue così velocemente. Fili argentei di magia guaritrice penetrarono in lei, ripulendo le impurità e alleviando migliaia di piccole ferite. Il suo respiro rallentò e divenne più sereno.

Lui riaprì gli occhi. "Devi rimanere tranquilla per un po’", le disse. "Ho rimosso il veleno, ma i tuoi polmoni...".

"... staranno bene", rispose lei, togliendo la spalla da sotto la mano di lui. Forzò un sorriso e si ripulì il sangue dalle labbra con il dorso di una mano. "Grazie. Davvero".

Nissa non disse nulla, ma gli fece un cenno con la testa per esprimere una delicata gratitudine. Aveva tenuto la mano sulla schiena di Chandra tutto il tempo.

Si udirono grida dal corridoio. Le guardie si stavano radunando.

"Tocca a te", disse all’elfa, nonostante non sembrasse che il veleno avesse avuto un grande effetto su di lei.

Lei scosse però la testa, indicando il rombo dei passi in avvicinamento. "Per ora sto bene. Sai come uscire da qui?".

L’aria nelle sue orecchie vibrò per gli impulsi delle ali dei totteri in arrivo. Nell’angolo lontano della stanza, una delle finestre venne frantumata e una cascata di schegge di vetro entrò nella stanza. L’ortotomo di ottone fluttuò intorno a loro, con insistenti perp, e si posò sulla sua spalla. Nissa osservò perplessa la creatura meccanica, incerta se fosse un miracolo o un orrore.

"Abbiamo un passaggio", le rispose Ajani, mentre un rotolo di corda scese dalla finestra.

"Ajani, volevi lasciare questi in questo posto?". Nonna lo rimproverò dall’altro lato della stanza, chinandosi per raccogliere i guanti che lui aveva lasciato cadere. "Gan Ghaheer ha impiegato settimane per realizzarli".

Lui... avrebbe spiegato più tardi.

La guardia che aveva steso gemette ai suoi piedi e rotolò per mettersi su mani e ginocchia. Si bloccò alla vista degli stivali e, riluttante, alzò lentamente lo sguardo.

"Torna a casa dalla tua famiglia", gli disse Ajani.

L’uomo lo osservò con terrore e meraviglia. "Non mi uccidi?".

"Io non uccido", rispose Ajani. "Non più".


Archivio dei racconti di Kaladesh
Planeswalker: Ajani Criniera D'Oro
Planeswalker: Tamiyo
Planeswalker: Chandra Nalaar
Planeswalker: Nissa Revane
Piano: Kaladesh
Piano: Kamigawa